Science Fiction Project
Urania - Racconti d'appendice
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TERRAFORMIAMO LA TERRA - Vittorio Cavini

Terraformare: operare al fine di trasformare l'ambiente di un corpo celeste inadatto alla vita dell'Uomo rendendolo il più possibile simile a quello del pianeta Terra.
Potrebbe essere questa la definizione di un qualsiasi vocabolario se un qualsiasi vocabolario citasse, cosa che non è, il verbo "terraformare". Anche il computer con il quale sto scrivendo questo articolo sostiene che in italiano un termine simile non esiste. Eppure ogni lettore di fantascienza ha avuto a che fare più e più volte con pianeti terraformati e con progetti di terraformazione. Che il termine sia brutto, non si discute; non si discute neppure il fatto che esista, eccome, anche se i vocabolari non lo citano.
Il fatto più significativo però è un altro: nella finzione siamo bravissimi a rendere vivibili i pianeti più ostili; nella realtà sta avvenendo invece l'esatto contrario e ancora nessuno ha trovato il modo di impedirlo. Il deserto infatti avanza ovunque e su questa nostra terra è il deserto l'ambiente nel quale l'uomo non può vivere.
Tutti i deserti avanzano, ma l'esempio del Sahara è il più evidente: ogni anno guadagna mediamente cinque chilometri su un fronte di quattromila. Come dire che ogni anno una superficie di 20000 chilometri quadrati diventa deserto, il che, per essere ancora più chiari, significa che ogni dodici mesi un'area grande quasi quanto tutta l'Emilia-Romagna diventa pressoché invivibile per uomini e animali.
Eppure, in teoria, non sarebbe poi così complicato "terraformare" il Sahara! Se ne parla da molti anni, ma solo di recente abbiamo raggiunto una tecnologia tale da rendere veramente possibile l'impresa perché l'immensa energia necessaria è la più abbondante ed economica venendo direttamente dal sole che in quella parte dell'Africa non manca mai.
Per rendere il più possibile chiaro il discorso bisogna porsi idealmente di fronte a una carta geografica dell'Africa. Se si esclude una stretta striscia di terra a nord, lungo le coste del Mediterraneo, il deserto copre tutta la parte settentrionale del continente dal mare (quasi) al 15° parallelo, in pratica fino alla foce del Senegal, al vertice della grande ansa del Niger, al lago Ciad. Più a est l'andamento non è così uniforme, ma torna a esserlo al di là del Mar Rosso, nella penisola arabica, anche se cambia nome. A sud del Sahara esiste poi una fascia di terra larga mediamente 4-500 chilometri e lunga 4000 (cioè dall'Atlantico al Mar Rosso) dove la vita è teoricamente possibile. In arabo si chiama Sahel, sponda, e il Sahel è la sponda di quel gran mare che è il Sahara. Ebbene, nel Sahel l'acqua non manca. In alcune aree anzi è abbondantissima. Piove poco, ma il Sahel è percorso da fiumi in confronto ai quali il nostro Po non fa una gran figura: il Gambia, il Senegal, il Niger, il Volta Bianco e Nero con i loro vastissimi bacini. In più c'è ancora tutto il sistema idrico che fa capo al lago Ciad. Il problema quindi, almeno per il Sahel, non è quello di trovare acqua, bensì quello di riuscire a utilizzarla per irrigare campi perennemente assetati.
Ma non basta: l'intero Sahel e buona parte del Sahara "galleggiano" su un vasto lago inviolato che rappresenta una ricchezza ben superiore a quella del petrolio.
Tutto ciò era noto da tempo, ma soltanto ora c'è chi dalla teoria tenta di passare ai fatti.
A Bamakò, capitale del Mali, si è formato un consorzio del quale fanno parte i governi di Senegal, Mauritania, Mali, Burkina, Niger e Ciad, ovvero gli stati più direttamente interessati alla desertificazione. Manca il Sudan, ma attualmente questo paese è impegnato in lotte politiche interne che evidentemente assorbono tutte le sue energie.
Il progetto è semplice: utilizzare l'acqua dei fiumi e del sottosuolo per mezzo di una fitta rete di pompe a energia solare. In un tempo ragionevole, si dice, il deserto potrebbe tornare ad avere l'aspetto verde e fertile della sua preistoria.
Che tutto sia così semplice e poco costoso come sostengono a Bamakò è ancora da vedere, ma è comunque la prima volta che qualcuno progetta sul serio di "terraformare" il Sahara. Quando si parla di ridare vita al deserto, generalmente si pensa a Israele, stato che per primo è riuscito a rendere vivibile un terreno sul quale crescevano solo pochi fili d'erba e qualche cespuglio spinoso. Il riferimento è automatico, ma calza fino a un certo punto. Si pensi infatti che la superficie di Israele è appena di 20300 chilometri quadrati, inferiore a quella dell'Emilia-Romagna e pari alla superficie che nel corso di un solo anno il deserto "mangia" a terreni sui quali l'agricoltura o la pastorizia sono ancora possibili.
Mentre il Consorzio di Bamakò pensa di utilizzare acqua in quantità industriali, Israele ha compiuto sul suo deserto quella che potremmo definire un'operazione di microchirurgia. Ha coperto cioè alcuni fazzoletti di terra con una fitta rete di tubi di gomma dai quali, a distanza di mezzo metro-un metro, cade a intervalli di pochi secondi una goccia d'acqua che finisce sulle radici di un cespo d'insalata, d'una pianta di pomodori, di un albero di limoni o di pompelmi.
In questo modo, irrigando a goccia le parti meno ostili del suo territorio, e utilizzando quindi pochissima acqua, Israele è riuscito a dimostrare a se stesso e al mondo che il deserto può essere domato.
Ma certo nessuno può pensare di coprire di gomme forate l'immensità del Sahara!
Il progetto dei sei paesi saheliani prevede invece di avanzare gradualmente verso il deserto profondo con una rete di canali nei quali scorra l'acqua dei fiumi o quella portata in superficie dal sottosuolo.
L'energia solare costa poco o nulla e quindi il progetto potrebbe veramente essere attuato.
È però opportuno a questo punto, prima di passare ad altre considerazioni, ricordare un altro importante progetto di terraformazione che non ha dato i risultati sperati, anzi: quello del lago d'Aral.
Il lago d'Aral, la quarta distesa d'acqua del nostro pianeta non collegata al mare, si trova (tra qualche anno dovremo dire "si trovava") a est del Mar Caspio, stretto tra il deserto nero del Kara-Kum e le aride steppe del Turkestan. È alimentato da due immensi fiumi che scendono rispettivamente dai monti del Tien Shan e del Pamir: il Syr Daria e l'Amu Daria.
Sono fiumi che hanno avuto una parte essenziale in tutte le vicende dell'Asia centrale. Senza le acque del Syr Daria non sarebbero mai sorte Taskent, Samarcanda, Buckara. Tamerlano non avrebbe mai costruito le cupole azzurre della sua capitale e non avrebbe massacrato milioni di persone. La storia del nostro pianeta sarebbe stata diversa.
Lungo le rive dei due fiumi sorgevano città e villaggi. Fin dai tempi antichissimi vi si coltivava il cotone che cresceva abbondante e di eccellente qualità.
Una quindicina d'anni fa fu messo a punto un grandioso progetto: incanalare le acque dei due fiumi, soprattutto quelle dell'Amu Daria, e irrigare migliaia di ettari di deserto e di steppa. Secondo i piani, la produzione del cotone sarebbe aumentata di decine di volte e tutta una vastissima plaga, sulla quale la vita era appena possibile, avrebbe cambiato volto.
Ebbene, la conclusione è stata drammatica. Le terre irrigate si stanno ricoprendo di sale; la produzione del cotone non solo non è aumentata, ma già ora è quasi scomparsa; la superficie del lago si è ridotta di un terzo e l'industria della pesca, un tempo fiorente, è ormai inesistente. Decine e decine di pescherecci giacciono insabbiati e arrugginiti a quasi cento chilometri da quella che è la nuova, e provvisoria, riva del lago.
Ora i governi di Russia, Uzbekistan e Kazakistan stanno pensando a un progetto altrettanto grandioso per porre riparo al fallimento del primo: portare verso sud le acque di alcuni grandi fiumi siberiani, il Tobol, l'Irtisch, l'Isim, che sono i maggiori affluenti dell'Ob.
Sarebbe una straordinaria opera di terraformazione per correggere il fallimento della prima, con quali conseguenze però proprio non si sa.
Tutto ciò ha ovviamente a che fare con il progetto di irrigare il Sahara perché una simile tragedia ecologica ha per lo meno un pregio: quello di rappresentare un precedente e quindi un campo di studio nella speranza di evitare gli stessi errori. Cosa ovvia sulla carta; non sempre nella pratica e tanto meno nella vita di tutti i giorni.
Ma a questo punto può essere divertente fare alcune speculazioni fantascientifiche. (Se non si possono fare sulle pagine di URANIA, dove mai sarà possibile!?).
...e se il Sahara fosse già stato terraformato alcune migliaia di anni fa? Proviamo a passare in rassegna gli indizi, dando per certi anche quelli che certi assolutamente non sono: una volta il deserto era coperto di piante e vi pascolavano gli animali; nel Tassili, uno dei grandi gruppi montuosi del Sahara, è incisa su una roccia la figura di un uomo che indossa un casco spaziale; i Dogon, una popolazione del Mali, sanno che Sirio è una stella doppia anche se la sua compagna è assolutamente invisibile a occhio nudo.
Continuiamo, sempre facendo finta di credere davvero che qualcuno venuto dalle stelle sia passato un giorno da queste parti e che il Sahara verde sia opera sua: i pigmei dell'Ituri (e siamo molto più a sud, nel bacino del Congo) sanno che Saturno ha gli anelli e a occhio nudo gli anelli non si vedono proprio; quasi dall'altra parte del mondo, in Messico, qualcuno ci ha lasciato il dipinto di uno spaziale che vola a bordo di una specie di scooter che a quell'epoca non esisteva proprio; a Nazca, in Perù, c'è chi si è premurato di fare immensi disegni a terra, chiaramente dei segnali, che hanno un senso solo se visti dall'alto, ma ancora nessuno aveva inventato il modo di sollevarsi da terra.
A questo punto (senza ancora approfondire un argomento che è affascinante anche soltanto per specularci sopra e inventare storie la cui unica funzione in definitiva è quella di passare il tempo), a questo punto dunque si può chiudere con una conclusione di questo tipo: gli abitanti di Sirio (ricordate i Dogon?) sono arrivati sulla Terra un po' di tempo fa. Il Sahara era più o meno come quello di oggi ma loro, i siriani, lo hanno, per ragioni loro o per pura bontà d'animo, terraformato (o sirioformato?). Si sono fatti vedere qua e là, poi hanno affidato l'ex deserto agli uomini e alla fine se ne sono tornati a casa.
Gli uomini, possiamo facilmente immaginarlo, hanno ringraziato, ma si sono guardati bene dal seguire i consigli di "manutenzione" che, pensiamo, gli ospiti venuti da Sirio avranno sicuramente elargito di qua e di là dell'Oceano.
Piano piano, lasciata a se stessa, la natura avrà preso di nuovo il sopravvento e il mare verde che in quel lontano tempo copriva tutta l'Africa del nord ha lasciato il posto prima alle sterpaglie, poi alle savane, infine alla sabbia e alla roccia nuda calcinata da un sole sempre più infuocato.
Di loro, degli ingegneri planetari che hanno trasformato un continente, sono rimaste solo poche leggende, alcuni graffiti e dei segnali incomprensibili.
Adesso tocca a noi.
Il primo tentativo non è proprio riuscito; il secondo, chissà!

FINE