Science Fiction Project
Urania - Asimov d'appendice
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VELENI IN NEGATIVO - Isaac Asimov
Titolo originale: Venom in negative

Ieri ero seduto a scrivere il mio 321° articolo per Fantasy and Science Fiction. L'ho intitolato How High in the Sky e il lavoro procedeva a gonfie vele. Ero contento perché elaborarne la struttura mi riusciva molto facile. Il testo pareva come scriversi da solo, e non ho dovuto consultare quasi nessun libro. Mentre lavoravo fischiettavo.
Poi, quando sono arrivato all'ultima cartella e ho cominciato a buttar giù con entusiasmo i paragrafi culminanti, mi sono detto: "Come mai queste parole mi suonano d'un tratto familiari? Ho forse già scritto un articolo come questo?".
Vedete, è noto pressoché a tutti che sono una persona timida, riservata, straordinariamente modesta, ma c'è una cosa mia di cui tendo - solo minimamente - a vantarmi, e quella cosa è la mia memoria eccezionale. Così ho premuto il bottone dei ricordi e sul mio schermo interno è comparso un articolo intitolato The Figure of the Farthest. Sperando ardentemente che la memoria stavolta mi avesse tradito, ho controllato. L'articolo in questione era il 182°, pubblicato sul numero di dicembre del 1973, circa undici anni e mezzo fa. Già, proprio così. Quel testo di tanto tempo prima era praticamente identico a quello che avevo appena terminato.
Ho stracciato subito ciò che avevo scritto per quasi tutto il giorno e, sentendomi di colpo di cattivo umore, ho cominciato a rimuginare. Di cos'altro avrei potuto parlare?
Per un po' non sono riuscito a pensare ad altro che ad argomenti già trattati. Anzi, stavo proprio arrivando alla scoraggiante conclusione di avere scritto ormai tutto ciò che c'era da scrivere, quando Janet, la mia cara moglie, è entrata nello studio con aria preoccupata.
Dio santo, mi sono detto, quella dolce donna capta a tal punto i miei stati d'animo che, telepaticamente, è riuscita a intuire la mia infelicità dall'altro capo dell'appartamento.
- Che cosa vuoi? - ho brontolato dolcemente.
Lei ha teso la mano verso di me. - Oggi ti sei dimenticato di prendere le vitamine - ha detto.
Di solito accolgo affermazioni come quelle con amabili ringhi e qualche sbrigativo commento affettuoso. Questa volta però mi sono illuminato e ho detto: - Ti ringrazio moltissimo, tesoro - e ho inghiottito le stupide pillole con un gran sorriso.
Perché, sapete, mi ero appena reso conto di non avere mai scritto un articolo sulle vitamine.

Credo che gli esseri umani abbiano sempre sofferto di carenza vitaminica, ma la carenza di solito si manifestava quando erano sottonutriti o costretti a una dieta monotona (o entrambe le cose): quando, per esempio, si trovavano in prigione, o in città assediate, o nella miseria più nera.
A quei tempi si pensava in genere che le vittime fossero morte di fame o di una delle molte malattie che colpivano gli esseri umani. In epoca antica si aveva un atteggiamento stoico di fronte a tali decessi, specie se i morti e i moribondi erano furfanti, canaglie, zoticoni e altri membri delle classi più umili.
Ma poi un flagello sconosciuto cominciò ad affliggere chi viaggiava per mare...
La dieta sulle navi era generalmente monotona e cattiva. Nei bei tempi antichi non c'erano i frigoriferi, e così non aveva senso caricare a bordo provviste che andavano a male o ammuffivano troppo facilmente. Perciò di solito si davano da mangiare ai marinai cose come gallette e carne salata di maiale, cibi che, anche se tenuti a temperatura ambiente, duravano quasi un'eternità, per l'ottima e plausibile ragione che nessun batterio rispettabile avrebbe mai toccato quella roba.
Questi alimenti fornivano ai marinai calorie e ben poco altro, ma in epoca antica e nel medioevo, quando si viaggiava per mare, si navigava soprattutto vicino alla costa e si facevano spesso soste durante le quali i marinai potevano mangiare cibi degni di questo nome, per cui non c'erano problemi.
Nel Quindicesimo secolo, però, iniziò l'Era delle Esplorazioni, e le navi intrapresero viaggi più lunghi, nel corso dei quali si rimaneva in mare per più tempo. Nel 1497 l'esploratore portoghese Vasco de Gama (1460-1524) circumnavigò l'Africa ed effettuò il primo viaggio marittimo dal Portogallo all'India. Il viaggio durò undici mesi e, quando la nave raggiunse l'India, molti membri dell'equipaggio avevano lo scorbuto, una malattia che dà sintomi come gengive sanguinanti, denti traballanti, dolore alle articolazioni, debolezza e tendenza a procurarsi facilmente dei lividi.
Non era una malattia sconosciuta, perché ne soffrivano anche coloro che sopportavano lunghi assedi in tempo di guerra, ed era stata oggetto di particolari osservazioni e analisi almeno fin dall'epoca delle Crociate. Quella però era la prima volta in cui la malattia si manifestava a bordo di una nave.
Naturalmente nessuno conosceva la causa dello scorbuto, così come nessuno sapeva quale fosse in genere la causa delle varie malattie. Né si sospettava che il problema potesse essere connesso alla dieta, dato che tutti erano convinti che il cibo fosse solo cibo e che se placava la fame aveva assolto la sua funzione.
Due secoli dopo de Gama lo scorbuto continuava ad affliggere chi viaggiava per mare, con conseguenze molto gravi. I marinai che si ammalavano di scorbuto non riuscivano a fare il loro lavoro, e le navi, agli albori dell'epoca moderna, correvano spesso il rischio di affondare durante le tempeste anche quando l'intero equipaggio era in buone condizioni fisiche e lavorava duro.
Eppure da alcuni indizi si capiva che lo scorbuto si poteva guarire.
Tra il 1531 e il 1542 l'esploratore francese Jacques Cartier (1491-1557) per tre volte raggiunse in nave il Nordamerica, esplorando il Golfo di San Lorenzo e il fiume San Lorenzo, e ponendo le basi del dominio francese in quella che è adesso la provincia di Quebec. Nel corso del secondo viaggio, tra il 1535 e il 1536, passò l'inverno in Canada. A bordo non solo c'era scarsità di cibo durante l'inverno, ma mancavano anche in continuazione molte altre cose indispensabili, per cui venticinque uomini di Cartier morirono di scorbuto, e quasi un centinaio di altri finirono per essere, chi più chi meno, così debilitati da non poter lavorare.
Secondo quanto si racconta, gli indiani fecero bere ai malati acqua in cui erano stati tenuti a bagno degli aghi di pino, e la pozione produsse un netto miglioramento.
Poi, nel 1734, J. G. H. Kramer, un botanico austriaco aggregato all'esercito austriaco durante la guerra di successione polacca, notò che lo scorbuto, quando infieriva, infieriva quasi sempre sui militari di truppa, mentre gli ufficiali parevano in genere esserne immuni. Osservò che i soldati semplici seguivano una dieta monotona a base di pane e fagioli, mentre gli ufficiali consumavano spesso verdure. Quando un ufficiale non mangiava verdura, tendeva ad ammalarsi di scorbuto quanto i soldati semplici. Kramer spiegò che per prevenire lo scorbuto bisognava assolutamente includere frutta e verdura nella dieta. Ma nessuno gli badò. L'idea era sempre che il cibo aveva l'unica funzione di placare la fame.
Lo scorbuto rappresentò un problema particolarmente grave per la Gran Bretagna, che faceva assegnamento sulla marina per difendere il suo territorio e salvaguardare il suo commercio. Era chiaro che se i marinai inglesi si ammalavano di scorbuto, la marina rischiava di non riuscire ad agire con prontezza nei momenti cruciali.
Un medico scozzese, James Lind (1716-1794), tra il 1739 e il 1748 prestò servizio nella marina britannica prima come assistente di un chirurgo e poi come chirurgo, ed ebbe così l'ottima opportunità di osservare le condizioni di vita assolutamente atroci che c'erano a bordo.
(In quella stessa epoca Samuel Johnson disse che nessuno che avesse avuto l'intelligenza di optare per la prigione avrebbe mai prestato servizio a bordo di una nave. Sulle navi, affermò, c'era meno spazio che nelle prigioni, il cibo era peggiore, la compagnia ancor meno raccomandabile, e c'era inoltre il rischio di annegare. Nel diciottesimo secolo gli inglesi in tempo di guerra persero a causa delle malattie e delle diserzioni circa 88 uomini per ciascuno ucciso in battaglia.)
Nel 1747 Lind scelse dodici uomini debilitati dallo scorbuto (ovviamente la possibilità di scelta era ampia), li divise in gruppi di due e diede a ciascuna coppia un diverso supplemento alimentare. Una coppia ricevette due arance e un limone al giorno nei sei giorni di durata della prova, e quella coppia si riprese dalla malattia con sorprendente rapidità.
Subito dopo Lind dovette assumersi il compito di convincere la marina inglese a dare regolarmente da mangiare ai marinai degli agrumi. Era un'impresa pressoché impossibile perché, come sappiamo tutti, i militari hanno un rigido limite che consente loro di assimilare una sola idea nuova nel corso dell'intera vita e, a quanto pareva, gli ammiragli britannici avevano già raggiunto quel limite all'età di cinque anni o giù di lì.
C'è poi da dire che il capitano Cook (1728-1779) durante i suoi viaggi di esplorazione perse solo un uomo a causa dello scorbuto. Si procurava a ogni occasione verdure fresche, e aggiunse alle razioni anche crauti e malto. Per qualche motivo il merito di avere sconfitto lo scorbuto fu attribuito ai crauti e al malto, benché non fossero affatto essenziali, e questo contribuì a rendere ancora più nebulosa la faccenda.
Poi scoppiò la rivoluzione americana, seguita dalla rivoluzione francese, e la situazione si aggravò. Nel 1780 (l'anno prima della decisiva battaglia di Yorktown, quando la Francia, per un attimo cruciale, assunse il controllo dell'Atlantico occidentale) 2400 marinai inglesi, un settimo del totale, erano ammalati di scorbuto.
Nel 1794 la marina britannica si trovò in un'impasse quasi totale quando molti marinai, esasperati dal trattamento disumano che ricevevano, si ammutinarono. Una delle richieste che gli ammutinati avanzarono era di ricevere una razione di succo di limone. A quanto pareva i marinai semplici, cosa ben poco sorprendente, non erano affatto contenti di avere lo scorbuto e, cosa ancora meno sorprendente, avevano più sale in zucca degli ammiragli.
L'ammutinamento fu sedato con un sapiente miscuglio di barbare punizioni e riluttanti concessioni. Poiché i limoni del Mediterraneo erano costosi, l'Ammiragliato britannico decise di ordinare le limette delle Indie Occidentali, che non avevano la stessa efficacia dei limoni, ma erano meno care. È da allora che i marinai inglesi sono chiamati "limeys".
Così lo scorbuto cessò di rappresentare una grossa minaccia per le navi britanniche, però Lind ormai era morto e non poté assaporare il successo.
Inoltre si trattò di un successo puramente locale. L'uso degli agrumi non si diffuse, e per tutto il diciannovesimo secolo lo scorbuto imperversò sulla terraferma, specie tra i bambini che avevano superato il periodo dell'allattamento. Anche se durante quel secolo la medicina fece enormi progressi, tali progressi servirono di fatto a ritardare la giusta terapia per guarire lo scorbuto.
Con l'aumentare delle conoscenze nel settore della biochimica, per esempio, risultò chiaro che c'erano tre principali categorie di sostanze organiche: i carboidrati, i grassi e le proteine. Si capì finalmente che non bastava che il cibo saziasse lo stomaco, ma che i vari alimenti possedevano qualità nutritive diverse. Si pensava però che la differenza fosse data soltanto dalla quantità e dal tipo di proteine presenti nei cibi, e gli scienziati erano restii ad azzardare ulteriori ipotesi.
Durante il Diciannovesimo secolo, inoltre, si scoprì, cosa molto importante, che alcuni microorganismi provocavano malattie. Tanto importante fu questa "teoria dei germi" e a tal punto contribuì a tenere sotto controllo varie malattie infettive, che i medici cominciarono a credere che tutte le malattie fossero causate da germi, e tendevano a escludere l'idea che la dieta avesse qualcosa a che fare con alcune affezioni.

Lo scorbuto non era l'unica malattia che colpiva i marinai e che poteva essere guarita ricorrendo a una dieta adeguata. Nella seconda metà del Diciannovesimo secolo il Giappone si stava occidentalizzando e stava assurgendo al rango di grande potenza. Per motivi di potere cominciò quindi a darsi attivamente da fare per mettere insieme una marina moderna.
I marinai giapponesi mangiavano riso bianco, pesce e vegetali e non avevano problemi di scorbuto. Diventarono però vittime di una malattia chiamata "beriberi", un termine che deriva dal singalese e che significa "molto debole". La malattia provocava danni ai nervi, sicché chi era afflitto dal beri-beri si sentiva le membra molto fiacche e provava una grande stanchezza. Nei casi più gravi, il paziente moriva.
Kanehiro Takaki, che era a capo della marina giapponese negli anni tra il 1880 e il 1890, era molto preoccupato per la faccenda. Un terzo di tutti i marinai giapponesi prima o poi finiva per ammalarsi di beri-beri, ma Takaki si accorse che gli ufficiali di bordo in genere non prendevano la malattia, e che seguivano una dieta meno monotona di quella dei marinai semplici. Takaki notò inoltre che i membri degli equipaggi inglesi non soffrivano di beri-beri, e anche loro seguivano una dieta diversa da quella dei marinai giapponesi.
Nel 1884 Takaki decise di rendere l'alimentazione più variata e di introdurre anche nella dieta alcuni dei cibi che prendevano i britannici. Sostituì con orzo parte del riso brillato e aggiunse alle razioni carne e latte evaporato. E, guarda caso, il beri-beri cessò completamente di affliggere la marina giapponese. Takaki pensò di avere raggiunto tali risultati perché aveva arricchito la dieta con una maggiore quantità di proteine.
Come già nel caso della cura ideata da Lind un secolo prima, neanche questa volta il successo ottenuto ebbe conseguenze positive sul piano generale. Il beri-beri, come lo scorbuto, fu eliminato a bordo delle navi, ma, come era appunto accaduto con lo scorbuto, continuò a imperversare sulla terraferma. Certo è abbastanza facile cambiare il regime alimentare di pochi marinai, che in caso di disobbedienza possono essere puniti con dure sanzioni disciplinari, mentre è assai più difficile cambiare il regime alimentare di milioni di persone, specie se il nuovo regime è più costoso e se i milioni di persone fanno già fatica a trovare in genere qualcosa da mangiare (Perfino adesso che sappiamo benissimo quali siano la causa e la cura del beri-beri, questa malattia uccide ogni anno 100 mila persone).
Nel diciannovesimo secolo il beri-beri era endemico nelle Indie Orientali olandesi (l'attuale Indonesia), e gli olandesi ovviamente consideravano il fenomeno preoccupante.
Christian Eijkman (1858-1930), un medico olandese, prestò servizio in Indonesia e prese la malaria, per cui fu costretto a tornare a casa. Alla fine guarì e, nel 1884, accettò di tornare in Indonesia per dirigere un'equipe medica che si proponeva di studiare il beri-beri e di stabilire quale fosse la terapia migliore.
Eijkman era convinto che questa malattia fosse provocata da un germe e così portò con sé alcuni polli. I polli, calcolava, si sarebbero riprodotti in gran numero e lui li avrebbe potuti usare come cavie. Li avrebbe fatti ammalare tramite contagio, avrebbe isolato il germe, messo eventualmente a punto un'antitossina, e studiato una cura adeguata da sperimentare su pazienti umani.
Non funzionò. Eijkman non riuscì a contagiare i polli, e alla fine la maggior parte dell'equipe medica tornò in Olanda. Eijkman però rimase in Indonesia a dirigere un laboratorio batteriologico, e continuò a lavorare intorno al beri-beri.
Poi d'un tratto, nel 1896, i polli mostrarono segni di paralisi. La malattia colpiva chiaramente i nervi (per questo fu chiamata "polinevrite dei polli"), e ad Eijkman, eccitato per l'avvenimento, parve molto somigliante alla malattia umana del beri-beri, che dopotutto era anch'essa una polinevrite.
I polli, pensò il medico olandese, si erano finalmente ammalati. Il suo compito adesso era di individuare il germe della polinevrite nelle cavie paralizzate, dimostrare che era contagioso trasmettendolo ad animali ancora sani, mettere a punto un'antitossina, e così via.
Ma anche questa volta i suoi piani non funzionarono. Non riuscì a isolare il germe, non riuscì a trasmettere la malattia e, peggio ancora, i polli paralizzati guarirono.
Sconcertato e deluso, Eijkman decise di verificare cosa fosse successo e scoprì che poco prima che le cavie guarissero, in ospedale era arrivato un nuovo cuoco.
Il cuoco precedente aveva cominciato a un certo punto a dar da mangiare ai polli gli avanzi dei piatti destinati ai pazienti dell'ospedale, piatti che consistevano soprattutto di riso bianco brillato, un riso, cioè, a cui erano stati tolti i tegumenti esterni di colore brunastro (Si procede alla brillatura perché la pula contiene olii che col tempo possono diventare rancidi. Il riso brillato, che non contiene questi olii, rimane commestibile per lunghi periodi di tempo). I polli si erano ammalati proprio nel periodo in cui venivano nutriti con gli avanzi.
Poi era arrivato il nuovo cuoco che, scandalizzato all'idea di dare a dei volgari polli cibo adatto agli esseri umani, aveva cominciato a nutrire gli animali con riso non brillato, completo di pula. E le cavie ben presto si erano riprese dalla malattia.
Eijkman capì allora che il beriberi era causato da una dieta sbagliata, che si curava con una dieta diversa e che i germi non c'entravano niente. Nel riso doveva esserci qualcosa che provocava la malattia, e nella pula qualcosa che la curava. Di quel qualcosa non dovevano esserci quantità considerevoli, dal momento che i carboidrati, i grassi e le proteine erano di per se stessi innocui. Doveva trattarsi dunque di qualche piccolo costituente "in tracce".
Ovviamente si conoscevano benissimo i costituenti in tracce capaci di far ammalare o addirittura morire la gente. Tali sostanze erano chiamate veleni, ed Eijkman pensò che nel riso bianco ci fosse un qualche tipo di veleno. Nella pula, si disse, c'era qualcosa che neutralizzava il veleno.
In realtà era vero piuttosto il contrario, ma l'idea di sostanze in tracce che si trovavano nel cibo e provocavano o curavano malattie si rivelò straordinariamente feconda. Mentre le ricerche di Lind e di Takaki, pur importanti, non produssero ulteriori risultati, quelle di Eijkman aprirono la strada a numerose altre analisi e rivoluzionarono completamente la scienza della nutrizione.
Fu per questo motivo che nel 1929 Eijkman condivise con un altro scienziato il Premio Nobel per la fisiologia e la medicina: a quell'epoca, infatti, praticamente tutti avevano riconosciuto che il suo lavoro rappresentava la base per ulteriori studi. Purtroppo nel 1929 il medico olandese era gravemente ammalato e non poté andare a Stoccolma a ritirare il premio di persona. L'anno dopo morì, ma, diversamente da Lind, era vissuto abbastanza da assistere al proprio successo.
Eijkman era tornato nei Paesi Europei poco dopo avere fatto la sua grande scoperta, ma un suo assistente, Gerrit Grijns (1865-1944), era rimasto in Indonesia. Fu lui ad annunciare per primo quale fosse l'interpretazione corretta degli esperimenti condotti. Nel 1901 (il primo anno del Ventesimo secolo) fece alcune osservazioni dalle quali si deduceva che la sostanza in tracce contenuta nella pula del riso non serviva a neutralizzare una tossina, ma era di per sé indispensabile alla vita umana.
In altre parole, mangiando solo riso bianco ci si ammalava non perché nel riso si trovasse un piccolo quantitativo di veleno, ma perché in esso mancava un piccolo quantitativo di qualcosa di vitale. Il beri-beri non era soltanto una malattia provocata da alimenti sbagliati: era una malattia da carenza dietetica.
Era un concetto rivoluzionario. Da migliaia di anni la gente sapeva benissimo che si poteva morire se nei cibi o nelle bevande era presente un po' di veleno. Adesso per la prima volta doveva abituarsi all'idea che la morte potesse essere provocata dall'assenza di una piccola quantità di qualcosa. Quel "qualcosa" era l'opposto di un veleno, e poiché la sua assenza poteva causare la morte, era per così dire un veleno in negativo.
Una volta che tale concetto fu assimilato, si cominciò a pensare che il beri-beri forse non era l'unica malattia da carenza dietetica. Lo scorbuto sembrava un altro esempio evidente di malattia di questo tipo. Nel 1906 il biochimico inglese Frederic Gowland Hopkins (1861-1947) formulò l'ipotesi che anche il rachitismo rientrasse tra le affezioni provocate da carenza dietetica. Fu particolarmente abile nel divulgare le sue teorie e nel convincere i medici ad accettarle, sicché nel 1929 condivise con Eijkman il Premio Nobel.
Nel 1912 il biochimico polacco Casimir Funk (1884-1967) ipotizzò che la pellagra fosse un'ulteriore malattia da carenza dietetica.
I dietologi naturalmente si preoccupavano all'idea che esistessero nel cibo sostanze in tracce così essenziali da significare la vita o la morte per gli organismi viventi, esseri umani compresi. Sembrava un'idea fatta apposta per ridare vita a vecchi misticismi.
Per riportare tutta la questione a comuni, normali parametri biochimici bisognava isolare le sostanze, stabilire che cosa fossero esattamente, e scoprire in che modo agissero.
In altre parole, non era sufficiente limitare le analisi al cibo e dire: "Il succo di limone previene lo scorbuto e il riso integrale previene il beri-beri". Conclusioni del genere potevano bastare a chi rischiava di prendere tali malattie, ma non potevano certo bastare agli scienziati.
A estendere per primo le osservazioni oltre il mero campo dell'alimentazione fu il biochimico americano Elmer Verner McCollum (1879-1967). Nel 1907 McCollum studiava l'alimentazione del bestiame, cambiando il tipo di dieta e analizzando gli escrementi. Ma la quantità di cibo e di escrementi era talmente grande, e le cose procedevano con tale lentezza, che McCollum finì per stancarsi e scoraggiarsi. Decise allora che gli conveniva lavorare con animali più piccoli ma più numerosi, in modo che le analisi potessero essere effettuate più in fretta. Le conoscenze così ottenute avrebbero potuto essere applicate agli animali più grandi, come aveva fatto Eijkman con i polli.
McCollum scelse cavie ancora più piccole dei polli. Per i suoi studi sull'alimentazione mise insieme la prima colonia di ratti bianchi da laboratorio, un'idea che i professionisti del settore ben presto copiarono.
McCollum cercò inoltre di scomporre i cibi nei diversi componenti (zuccheri, amidi, grassi, proteine) e di somministrare questi ultimi, separati e combinati l'uno con l'altro, ai ratti; poi controllò quando il processo di crescita degli animali procedeva normalmente, quando rallentava e quando comparivano sintomi anormali di qualsiasi tipo.
Nel 1913 per esempio, dopo avere sottoposto le cavie a certe diete rigide che impedivano agli animali di crescere normalmente, dimostrò che la crescita normale riprendeva se venivano aggiunti al regime alimentare un po' di grasso di latte o di grasso di tuorlo d'uovo. Ma non era il grasso di per sé a compiere il miracolo, perché quando venivano aggiunti alla dieta del lardo o dell'olio di oliva, la crescita normale non riprendeva.
A compiere il miracolo doveva essere qualche sostanza in tracce presente in piccole quantità in alcuni grassi ma non in altri. L'anno seguente McCollum annunciò che, usando diversi procedimenti chimici, era in grado di estrarre dal burro la sostanza in tracce e di aggiungerla all'olio di oliva. E quando in seguito somministrò quell'olio di oliva ai ratti, vide che esso favoriva la crescita.
L'esperimento confermò decisamente che l'idea di sostanze in tracce necessarie alla vita era plausibile, e la privò di qualsiasi aura mistica. Qualunque fosse, la sostanza in tracce doveva essere di natura chimica e doveva potersi trattare con metodi chimici.
Si dà il caso che i tessuti viventi siano costituiti in maggior parte di acqua. In questo ambiente liquido vi sono strutture solide composte di materiale inorganico (per esempio le ossa), o di grandi molecole insolubili (per esempio le cartilagini). Vi sono inoltre piccole molecole organiche, molte delle quali sono solubili in acqua e si trovano quindi allo stato fluido.
Certe molecole dei tessuti, però, non sono solubili in acqua. Le principali molecole di questo tipo sono i vari grassi e olii, che si aggregano insieme e restano separati dall'acqua. Altre molecole non solubili in acqua si sciolgono invece nei grassi.
Possiamo così definire le piccole molecole dei tessuti viventi o "solubili in acqua" o "solubili nei grassi". Le sostanze solubili in acqua si possono isolare utilizzando una maggiore quantità di acqua. Quelle solubili nei grassi si possono isolare utilizzando solventi come l'etere o il cloroformio.
La sostanza in tracce indispensabile alla crescita che dalle osservazioni di McCollum era risultata presente in alcuni grassi e non in altri è chiaramente solubile nei grassi. McCollum riuscì a dimostrare che l'elemento, quale che fosse, contenuto nella pula del riso e in grado di prevenire il beri-beri si poteva invece isolare con l'acqua, ed era quindi solubile in acqua. Quella era già di per se stessa una prova definitiva del fatto che di sostanze in tracce atte a favorire la crescita normale e a prevenire la malattia non ce n'era una sola, ma almeno due.
Poiché non si sapeva assolutamente nulla delle strutture di questa sostanza, McCollum fu costretto a usare un codice elementare per distinguerle. Nel 1915 le definì "solubili nei grassi A" e "solubili in acqua B" (dando, per istintivo egocentrismo, la precedenza alle proprie scoperte). Gli scienziati cominciarono così a usare le lettere dell'alfabeto per identificare i costituenti in tracce, e il vezzo continuò per un quarto di secolo, finché si apprese abbastanza sulla struttura chimica di tali costituenti da utilizzare altri nomi. Anche adesso, però, alle lettere fanno spesso ricorso non solo i "profani", ma perfino i biochimici e i dietologi.
Nel frattempo però c'era stato qualcun altro che aveva cercato di trovare una definizione più esatta. Funk, che ho menzionato in precedenza, studiava a Londra le sostanze in tracce. Effettuando analisi chimiche arrivò nel 1912 alla conclusione che parte integrante della struttura chimica della non ancora identificata sostanza in tracce che preveniva il beri-beri era un raggruppamento atomico composto da un atomo di azoto e due di idrogeno (NH2). Dal punto di vista chimico tale raggruppamento è connesso con l'ammoniaca (NH3) ed è quindi chiamato dai chimici "ammina". Sotto questo profilo le osservazioni di Funk risultarono esatte.
Riflettendo, Funk si disse poi che se esistevano più sostanze in tracce, allora ciascuna era probabilmente un tipo o un altro di ammina (ma qui si sbagliò). Per tale motivo le chiamò, come gruppo, "vitamine", ossia, (dal latino), "ammine della vita".
Non occorsero molti anni perché, accumulando prove, si scoprisse che i gruppi di ammine non facevano parte della struttura chimica di alcune sostanze in tracce indispensabili alla vita e che "vitamina" era quindi un termine sbagliato. Accadono sovente cose del genere in campo scientifico, e spesso, se il termine sbagliato ricorre ormai ripetutamente nelle pubblicazioni del settore e se è entrato definitivamente nell'uso comune, non lo si può più abbandonare e si continua a utilizzarlo ("Ossigeno", per esempio, è un termine errato ed è da quasi due secoli che sappiamo che è errato, ma cosa ci possiamo fare?).
Nel 1920, però, il biochimico inglese Jack Cecil Drummond (1891-1952) invitò gli altri scienziati a eliminare almeno la "e" finale che la parola vitamina aveva nella lingua inglese, in modo che non si notasse troppo il riferimento all'ammina (amine). Il suggerimento fu subito accettato, e da allora le sostanze in tracce sono chiamate in inglese "vitamins".
La sostanza "solubile in grassi A" e quella "solubile in acqua B" vennero chiamate dunque "vitamina A" e "vitamina B", e della loro storia continuerò a parlare nel prossimo articolo.

FINE