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Urania - Asimov d'appendice
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WILLIAM E IO - Isaac Asimov
Titolo originale: Bill and I

Sto scrivendo un libro sul «Don Giovanni», il poema narrativo di Lord Byron. Il «Don Giovanni» è una satira senza inibizioni in cui Byron coglie l'occasione per sferzare tutto e tutti quelli che disapprova. Il poeta si mostra spietato con i sovrani britannici, con i maggiori poeti, con i più grandi generali, e così via, fino ad essere addirittura sadico.
Ma quelli contro cui si mostra più caustico, sono i suoi critici. Byron non accettava benevolmente le critiche, e invariabilmente rispondeva a tono.
Ora, per quello che so, non esistono scrittori che accettano le critiche con benevolenza. Molti di noi, tuttavia, affettano una stoica indifferenza, salvo poi a rodersi in privato.
Per me, purtroppo, la stoica indifferenza è impossibile. Il mio comportamento aperto e candido (così mi hanno detto) è una pagina bianca su cui si scrivono tutte le mie emozioni. D'altra parte non credo di avere mai tentato di fingermi stoico, nemmeno per mezzo secondo. Tuttavia, quando vengo criticato in modo ingiusto, tutti quelli che sono a portata d'orecchio lo vengono a sapere... e ogni volta se lo sentono ripetere per un'ora di seguito, o poco meno.
Naturalmente, quando ho pubblicato, storia recente, i due volumi intitolati «Guida di Asimov su Shakespeare», ho cercato di corazzarmi contro le conseguenze inevitabili. I libri sarebbero certamente finiti nelle mani di qualche studioso di Shakespeare pronto a cadere in deliquio al pensiero che qualcuno, non specializzato, avesse avuto il coraggio di invadere i recinti sacri.
Infatti l'articolo pubblicato a questo proposito dalla prima rivista che mi venne consegnata, cominciava: «Cosa sta facendo Isaac Asimov, tessitore di libri fantascientifici...»
A questo punto ho smesso di leggere. Il fatto che io sia un tessitore di libri fantascientifici è del tutto irrilevante, ed era stato menzionato solo perché il critico pensava che essere uno scrittore di fantascienza fosse qualcosa di vagamente al di sotto (o forse non troppo vagamente) della dignità letteraria.
Ho cercato di scrivere una risposta pubblicabile, ma non ci sono riuscito, così ho lasciato perdere.
La seconda critica era molto più interessante. Comparve su un giornale del Kentucky, e l'aveva scritta un tale che chiamerò signor X. Cominciava in questo modo: «Isaac Asimov è professore associato di biochimica all'università di Boston, e prolifico quanto eclettico scrittore. Ho letto con grande attenzione e rispetto diversi suoi libri di scienza».
Fino a qui niente da dire, e ne fui felice. Ma poi, un poco più avanti, diceva: «In questo libro, tuttavia, ha lasciato il sentiero luminoso delle scienze naturali per la palude traditrice della letteratura...»
Quello che il signor X obbietta, mi sembra, è che ho chiosato le commedie spiegando i riferimenti storici, leggendari, e mitologici. È, per modo di dire, un libro di note a pie di pagina, e lui se ne sente sdegnato. Precisa che il linguaggio e la poetica sono la gloria maggiore del lavoro di Shakespeare.
Be', e chi lo nega? Sono felice che il signor X sia tanto intelligente da capire il linguaggio e la poetica senza bisogno delle mie spiegazioni. Ma se non ne ha bisogno lui, perché va a seccare altra gente, eh?
Notate, comunque, che lui non disdegna di seguirmi lungo il «sentiero luminoso delle scienze naturali». Infatti dice di aver letto i miei libri di scienza «con grande attenzione e rispetto.»
Sono felice che l'abbia fatto, e posso soltanto presumere che mi sia grato per aver messo le note a pie pagina anche alla scienza, così avrà potuto dare un fuggevole sguardo a tutte le sue bellezze.
Supponiamo, invece, che io dica al signor X: «Il logaritmo di due è un numero trascendentale. E, infatti, il logaritmo di ogni numero rispetto ogni base è trascendentale tranne quando il numero è uguale alla base o a una esatta potenza di questa base».
Il signor X, giustamente, potrebbe dire: «Cos'è un numero trascendentale, un logaritmo, e, nel caso specifico, una potenza e una base?»
In verità, se fosse davvero un profondo pensatore, si domanderebbe: «Cos'è due?»
Ma supponiamo che io gli risponda che la mia asserzione contiene tutta la poesia, e la simmetria, e la bellezza della matematica («Solo Euclide aveva cercato la bellezza disadorna»), e che cercare di spiegarla sarebbe semplicemente un modo di distruggerla.
Ma io non rispondo così. Spiego quelle cose e molte altre ancora, con molta fatica, e allora lui legge quelle mie spiegazioni «con grande attenzione e rispetto.»
Generalmente gli scienziati riconoscono l'importanza di spiegare la scienza ai non-scienziati. È interessante quindi, anche se triste, vedere che esistono umanisti che si considerano proprietari del loro campo, che si abbracciano alla letteratura, che borbottano parole come «linguaggio» e «poetica» e che non vedono il motivo di dare spiegazioni agli altri, fintanto che il profumo di questa ambrosia può restare soltanto loro.
Prendiamo un caso specifico. Nell'ultimo atto di «Il Mercante di Venezia», Lorenzo e Gessica stanno trascorrendo un interludio idilliaco nel giardino di Portia, a Belmont, e Lorenzo dice:

Siedi, Gessica, guarda come il pavimento del cielo
è tutto costellato di stateri d'oro scintillanti;
e neanche uno, neanche il più piccino,
di questi globi, che non percorra l'orbita sua
cantando come un angelo in coro
coi cherubini dagli occhi novelli.
E la stessa armonia è anche nelle anime nostre immortali;
ma finché sono chiuse in questi nostri rozzi
cofani d'argilla, non la possiamo sentire.


Ritengo che questo brano sia bellissimo, perché io possiedo lo stesso acuto senso della bellezza e della poetica delle parole che possiede il signor X. E forse (è possibile?) anche più acuto.
Ma cosa succede se qualcuno chiede: «Cosa sono gli stateri?»
In fondo, non è una parola molto comune. Rovina la bellezza del verso bisbigliare a parte: «Piccoli dischi».
E se qualcuno chiede: «Cosa intende quando parla di globi che percorrono l'orbita cantando come angeli? Quali globi? Quali orbite? Quali canti?»
Capisco che la risposta adatta sarebbe: «No! Ascolta soltanto le parole e il magnifico flusso del linguaggio, e non fare domande idiote».
Spoglia forse la bellezza del linguaggio di Shakespeare, capire che cosa dice? O esistono umanisti che, per quanto siano qualificati in estetica, conoscono poco di storia della scienza, e non capiscono cosa William dica, tanto da preferire che non vengano loro rivolte domande in questo senso?
Bene, prendiamolo allora come un brano-test. Voglio spiegare questo brano con maggiori dettagli di quanto non abbia fatto nel mio libro, e solo per dimostrare quante cose ci siano da considerare in questi magnifici versi...

Chiunque guardi normalmente il cielo, senza l'aiuto di una qualsiasi cultura astronomica, e che lo voglia giudicare dal suo aspetto, conclude che la Terra è ricoperta da una cupola levigata e compatta, azzurra di giorno, e nera di notte.
Sotto questa cupola c'è l'aria, e ci sono le nuvole fluttuanti. Sopra, pensa, c'è un altro mondo di dei e di angeli, dove salgono le anime immortali degli uomini dopo che i loro corpi, ormai morti, si consumano.
Per la verità, questo è stato esattamente il punto di vista degli uomini dell'antico vicino oriente. La Bibbia, sul secondo giorno della creazione, dice: «Poi Dio disse: Ci sia un firmamento tra le acque, che separi le acque dalle acque. E Dio fece il firmamento, e separò le acque che erano sotto il firmamento dalle acque che erano sopra il firmamento». (Genesi 1:6-7).
La parola firmamento deriva dal latino «firmamentum», che significa qualcosa di duro e di solido. Firmamentum è la traduzione della parola greca «stereoma» che significa qualcosa di duro e di solido, e stereoma è a sua volta la traduzione della parola ebraica «raqia» con la quale si indicava una piccola boccia metallica.
Dal punto di vista biblico c'erano acque sotto il firmamento (ovvio) e acque anche sopra, riferendosi a quelle della pioggia. Ecco perché, nel descrivere il diluvio, la Bibbia dice: «... le fonti del grande abisso si gonfiarono, e le finestre del cielo si aprirono». (Genesi 7:11). Naturalmente l'espressione deve essere accettata come metafora, ma sono sicuro che gli antichi, meno smaliziati, l'hanno accettata letteralmente.
Non c'è motivo di sorridere dall'alto della nostra sapienza faticosamente conquistata. Nel 700 a. C. circa, quando si è raccolto per la prima volta il materiale della Genesi, il pensiero che il cielo fosse una volta solida confinante con un mondo superiore diventava una conclusione logica derivante da quello che si poteva vedere.
Inoltre, nel 700 a. C., doveva sembrare ragionevole pensare che il firmamento ricoprisse soltanto una piccola porzione di suolo piatto, dato che all'orizzonte lo si vedeva saldato con la Terra. Nei tempi antichi, pochissima gente si allontanava molto da casa, e per quasi tutti il mondo si allargava di pochi chilometri in ogni direzione. I soldati e i mercanti, che percorrevano maggiori distanze, potevano sì pensare che il mondo fosse più grande di quello che sembrava, ma continuavano a considerare che la Terra e il firmamento si unissero all'orizzonte. (Questa è stata la convinzione quasi generale fino al medioevo, e probabilmente molte popolazioni primitive di oggi continuano a crederlo).
Tuttavia, alcuni filosofi greci erano giunti alla conclusione, per un certo numero di motivi, erano giunti alla conclusione, dicevo, che la Terra non fosse un oggetto piatto di grandezza alquanto ridotta, ma un corpo sferico su cui si stendeva il piccolo mondo allora conosciuto.
Il firmamento, quindi, si doveva stendere tutto attorno alla Terra globulare, e per farlo in modo così simmetrico, la seconda sfera doveva essere di dimensioni assai più grandi. L'apparente piattezza del cielo doveva essere un'illusione (lo è!), e i greci cominciarono a parlare di «sfera celeste», come contrapposizione a «sfera terrestre».
Niente di tutto questo, comunque, alterò il concetto di un firmamento (o sfera celeste) fatto di qualche materiale duro e solido. Allora, cosa potevano essere le stelle?
Naturalmente il primo pensiero fu che le stelle fossero esattamente quello che sembravano essere. Dei piccoli dischi lucenti incastonati nel materiale del firmamento («Guarda come il pavimento del cielo è tutto costellato di stateri d'oro scintillanti.»).
La prova di questo era che le stelle non cadevano, come sarebbe successo se non fossero state incastrate saldamente nella sfera celeste. In secondo luogo, le stelle compivano ogni ventiquattro ore un giro intorno alla Terra, facendo perno sulla Stella Polare (l'altro perno era invisibile, essendo nascosto dietro l'orizzonte sud), e facevano questa rotazione senza cambiare la loro posizione relativa, notte dopo notte, anno dopo anno.
Se le stelle fossero state sospese, libere tra la sfera celeste e la Terra, e se per qualche ragione non cadevano, o sarebbero rimaste ferme, o si sarebbero mosse indipendenti una dall'altra. No, sembrava più logico supporre che fossero fissate alla sfera celeste, e che fosse la sfera celeste, girando, a trascinare le stelle con sé.
Purtroppo questa interpretazione del cielo... bella e semplice... non concordava in tutto.
Infatti, la Luna era chiaramente staccata dalla sfera celeste, perché non manteneva una posizione relativa fissa alle stelle. Una notte era a una particolare distanza da una particolare stella, più a est la notte seguente, e sempre più a est la notte seguente ancora. Si muoveva costantemente da ovest a est, e completava il giro del cielo stellato in poco più di 27 giorni.
Anche il Sole si spostava da ovest a est, però con maggiore lentezza. Chiaro che il suo movimento non poteva essere osservato direttamente, perché nelle vicinanze del Sole era impossibile vedere stelle su cui fissare la sua posizione. Tuttavia la configurazione notturna delle stelle si spostava di notte in notte perché il Sole, nel suo movimento, cancellava ogni giorno una diversa porzione di cielo. In questo modo fu possibile calcolare che il Sole compiva un giro completo del cielo in poco più di 365 giorni.
Il fatto che il Sole e la Luna fossero gli unici due corpi celesti eccezionali, non era strano. In fondo erano molto diversi dalle stelle, e non potevano certo seguire le stesse loro regole.
Per cui, gli ebrei, nella loro Bibbia, trattarono il Sole e la Luna come casi speciali. Nel quarto giorno della creazione si legge: «E Dio fece i due grandi luminari; il luminare maggiore per presiedere al giorno, e il luminare minore per presiedere alla notte; e fece pure le stelle». (Genesi 1:16).
È divertente per noi, oggi, vedere come abbiano trattato con distacco le stelle, ma è una cosa perfettamente normale alla luce del sapere degli ebrei di quel tempo. Le stelle erano tutte incastonate nel firmamento, e servivano solo da fondale sul quale studiare i movimenti del Sole e della Luna.
Poi si accorsero di un'altra cosa. Certe stelle, tra le più luminose, seguivano movimenti anomali, e si spostavano sullo sfondo del firmamento. Tra l'altro il loro movimento era ancora più strano di quello della Luna e del Sole, perché si spostavano anche loro da ovest a est, come la Luna e il Sole, ma poi, di tanto in tanto, tornavano indietro, andando da est a ovest. Estremamente enigmatico!
I greci chiamarono quelle stelle «planetes», che significa «vagabondi» in contrapposizione con le «stelle fisse». La parola greca, per noi, è diventata «pianeti». Ne riconobbero sette. Comprendevano le cinque stelle luminose, che oggi chiamiamo Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno, e, naturalmente, il Sole e la Luna.
Che pensare di loro? Ecco, i pianeti non cadevano, come le stelle, e come le stelle si muovevano intorno alla Terra. Di conseguenza, come le stelle, dovevano essere incastonati in una sfera. Ma dal momento che i sette pianeti si muovevano a velocità diverse, e in modo diverso, tutti dovevano avere una sfera diversa, una dentro nell'altra, e tutte dentro la sfera delle stelle.
A questo punto si diffuse il concetto, non della sfera celeste, ma delle sfere celesti, al plurale.
Ma si poteva vedere una sola sfera celeste... quella azzurra del firmamento. Il fatto che le altre sfere fossero invisibili non sollevò discussioni su una loro non-esistenza, ma solo sulla loro trasparenza. A volte vennero chiamate «sfere cristalline», dove la parola «cristalline» si sostituiva a «trasparenti», molto più antica.
I greci cercarono di calcolare dove facessero perno queste sfere, e come si dovevano girare per muovere i pianeti nel preciso modo in cui li osservavano muoversi. Innumerevoli complicazioni si aggiunsero durante i tentativi di far collimare la teoria e la pratica, ma per duemila anni la teoria delle sfere cristalline si mantenne valida, non perché gli uomini di scienza perseveravano nell'essere stupidi, ma perché niente altro sembrava adattarsi così bene alle apparenze.
Anche dopo aver suggerito che il Sole, e non la Terra, doveva essere il centro dell'Universo, Copernico non abolì le sfere. Si limitò a farle girare intorno al Sole, e legare la Terra a una di queste. Fu solo con Giovanni Keplero...
Ma questo non ha importanza. I dettagli sul movimento delle sfere cristalline non riguarda questo articolo. Consideriamo invece una cosa apparentemente più semplice. In che ordine erano disposte le sfere? Dovendoci allontanare dalla Terra, quale sfera si sarebbe incontrata per prima? E quale subito dopo, e dopo ancora?
I greci formularono la deduzione logica che la sfera più vicina doveva essere la più piccola, e che quindi doveva compiere il giro completo nel tempo più breve. Dato che la Luna faceva il giro completo contro le stelle in poco meno di quattro settimane (un tempo molto inferiore a quello impiegato dagli altri pianeti per compiere lo stesso giro), la sua sfera doveva essere la più vicina.
Ragionando in questo modo i greci stabilirono che la seconda sfera doveva essere quella di Mercurio. Poi, nell'ordine, quella di Venere, del Sole, di Marte, di Giove, e di Saturno. Ultima, logicamente, c'era la sfera delle stelle.
E a che distanza si trovavano queste sfere tra loro? E quanto erano lontane dalla Terra?

Questo, sfortunatamente, era un calcolo che esulava dalle possibilità dei greci. Per la verità, l'astronomo greco Hipparchus, nel 150 a. C. circa (dopo Aristarco, astronomo ancora precedente), usò un metodo perfettamente valido per determinare la distanza della Luna, e la collocò a trenta volte il diametro della Terra, il che è esatto. Tuttavia, la distanza degli altri corpi celesti non venne stabilita con ragionevole precisione fino al diciassettesimo secolo.
Ora la scena si sposta. Nel 520 circa a. C., il filosofo greco Pitagora, pizzicando delle corde, scoprì di potere estrarre delle note che armonizzavano tra loro. Bastava usare corde con lunghezze in relazione fra loro. Una corda doveva avere una lunghezza doppia dell'altra. O tre corde dovevano avere una lunghezza in rapporto 3:4:5.
I particolari sono irrilevanti, ma a Pitagora parve altamente significativo che ci fosse un legame tra i suoni e i numeri. Si adattava a una sua idea, alquanto mistica, secondo cui ogni cosa nell'Universo doveva essere in relazione a semplici rapporti e numeri.
Quelli che seguirono le sue orme accentuarono il misticismo. Ai pitagorici parve di avere in mano la spiegazione, non solo del come si muovevano i pianeti, ma anche del perché. Dal momento che l'Universo era governato dai numeri, uno studioso doveva essere in grado di dedurre il modo in cui era costruito l'Universo.
Per esempio, 10 era un numero perfetto. (Perché? Be', per questo. 1+2+3+4 = 10, e questo sembrava avere una specie di valore mistico). Nell'ordine, quindi, per funzionare bene l'Universo doveva essere composto di dieci sfere.
Naturalmente c'erano solo otto sfere. Una per le stelle, e una ciascuna per i sette pianeti. Ma questo non scoraggiò i pitagorici. Stabilirono che la Terra doveva muoversi attorno a un fuoco centrale, del quale il Sole era soltanto un riflesso, e trovarono una ragione per spiegare l'invisibilità di questo fuoco centrale. Con questo aggiunsero una nona sfera per la Terra. In aggiunta, immaginarono un altro pianeta dietro il fuoco centrale, una «contro-Terra». La contro-Terra si muoveva alla stessa velocità del nostro pianeta e si manteneva sempre dietro il fuoco centrale. Per questo era invisibile. E la sua sfera era la decima.
Infine i pitagorici pensarono che le sfere fossero inserite una nell'altra, a distanze in rapporto tra loro, e che nel movimento producessero note armoniose (come quelle che si ottenevano pizzicando corde di lunghezze diverse). In origine, penso, i pitagorici devono avere avanzato l'idea delle note armoniose come metafora per rappresentare le distanze in semplice rapporto, e che mistici successivi le abbiano accettate come veramente esistenti. Queste note divennero «l'armonia delle sfere».
Naturalmente nessuno ha mai sentito della musica scendere dal cielo, così si dovette presumere che gli uomini della Terra non la potessero udire. È questo concetto che fa dire a Shakespeare «che non percorra l'orbita sua cantando come un angelo in coro», ma con dei suoni che si possono sentire soltanto in cielo. («La stessa armonia è anche nelle anime nostre immortali»). Le anime degli uomini ancora avvolte nei corpi terrestri sono sorde a questa musica («finché sono chiuse in questi nostri rozzi cofani d'argilla, non la possiamo sentire»).

Dunque, capire Lorenzo che parla in termini di antica astrologia, spoglia la beltà dei versi? Non vi sembra, piuttosto, che capirlo aggiunga un certo interesse? Rispondere alla domanda: «Ma che cosa vuol dire?» toglie forse qualcosa al linguaggio?
Può darsi, logicamente, che il signor X sia il tipo d'uomo che non si domanda mai: «Cosa vuol dire». Può darsi che, per lui, capire sia del tutto irrilevante. Se è così, lui e io non siamo certo anime gemelle. Può darsi perfino che il signor X sia una specie di oscurantista, capace di asserire che la comprensione diminuisce la bellezza. Se è così, lui e io siamo sempre meno anime gemelle.
Tuttavia, lasciatemelo dire, proprio in questi versi c'è qualcosa che può interessare gli studiosi di Shakespeare, se riescono esattamente a capire quello di cui sta parlando.
Come quasi tutti sanno, molti non sono convinti che Shakespeare non abbia scritto i drammi a lui attribuiti. Pensano che siano opera di qualcun altro, e indicano frequentemente come autore Francesco Bacone, quasi esatto contemporaneo di Shakespeare.
La tesi più frequentemente adottata è che Shakespeare era un uomo di provincia, con pochissima istruzione, e che, quindi, non poteva aver scritto una serie di drammi di così alta letteratura. Bacone, per contro, era un grande filosofo, e una delle persone di più grande istruzione del suo tempo. Bacone, quindi, poteva benissimo aver scritto quelle opere.
Gli studiosi, quando discutono sull'argomento, sono costretti ad ammettere che Shakespeare poteva avere più istruzione di quanta non gli fosse accreditata, e che, quindi, aveva anche l'intelligenza sufficiente per scrivere i drammi. Dato che non si sa niente della vita di Shakespeare, la questione non verrà mai risolta in questo modo.
Perché allora non rovesciare l'argomento, e dire che Bacone era troppo istruito per scrivere le commedie di Shakespeare? Nelle commedie ci sono degli errori che Bacone non avrebbe mai potuto commettere e che si possono giustificare soltanto attribuendoli a una persona con istruzione incompleta.
Consideriamo quello che dice Lorenzo. Sta parlando delle stelle, e dice che sono «stateri d'oro scintillanti» di cui «il pavimento del cielo è tutto costellato». Lorenzo (quindi Shakespeare) sembra pensare che ogni stella abbia una sua sfera separata, e che ciascuna emetta una sua nota («e neanche uno, neanche il più piccino, di questi globi, che non percorra l'orbita sua cantando come un angelo in coro»).
Se pensate che io abbia male interpretato i versi, prendiamo un caso più chiaro.
Nel secondo atto di «Sogno di una notte di mezza estate», Oberon ricorda a Puck il giorno in cui hanno sentito cantare con tanta celeste bellezza che:

... perfino il protervo mare sostò, placato, in ascolto?
E quante stelle, ricordi, vedemmo balzare come impazzite
dalle loro sfere per ascoltare la voce di quella sirena?


L'uso del plurale, «sfere», dimostra ancora una volta che Shakespeare era convinto che ogni stella avesse una sua sfera separata.
Questo è sbagliato. C'è una sfera per ciascun pianeta. Una per la Terra, se volete. Una per la contro-Terra. E una per tutti i pianeti che si possono immaginare. Comunque, tutte le antiche teorie sono concordi nell'affermare che tutte le «stelle fisse» sono incastonate in una singola sfera.
Immaginare sfere separate per ogni stella, come fa Shakespeare più di una volta nelle sue commedie, è un rivelare scarsa conoscenza dell'astronomia greca. È un tipo di scarsa conoscenza che Francesco Bacone non avrebbe rivelata. Di conseguenza possiamo arguire che Francesco Bacone non ha scritto le commedie di Shakespeare.

Be', non mi fraintendete. Non voglio dire che per la mia Guida a Shakespeare abbia ricevuto soltanto aspre critiche. Per la verità ce ne sono state anche di favorevoli, e leggerle mi ha fatto piacere.
Comunque, conviene che mi prepari. Quando verrà pubblicato «Annotazioni di Asimov sul "Don Giovanni"» riceverò certamente le critiche di qualche «studioso oltraggiato».

FINE