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Urania - Racconti d'appendice
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VISIONI - Robert Franklin Young
Titolo originale: Visionary shapes

Hawkins incappò nella piega spaziale (o almeno immaginò che fosse successo questo) proprio mentre avvistava la flotta Kus, e un momento dopo la sua nave da ricognizione atterrava da sola sulla superficie sabbiosa di un mondo straniero, illuminato da una stella simile al sole.
Gli venne in mente che la piega, se di piega si era trattato, poteva essere un'arma dei nemici. Ma scartò l'idea. Malgrado la loro tecnologia avanzata, i Kus non potevano certo piegare lo spazio.
Hawkins era diretto su Marte, attorno a cui la flotta Kus, interrompendo il suo viaggio verso la Terra, si era messa in orbita. Le navi che formavano la flotta erano equipaggiate con schermi ad immagine, che le rendevano immuni dal radar e davano loro l'invisibilità, tranne che a breve distanza, anche se venivano usati telescopi. Mesi prima una nave di rifornimenti, diretta verso la colonia della Stella di Barnard II, era passata nelle vicinanze della flotta mentre essa penetrava nel sistema solare, e aveva trasmesso alcune foto confuse. Speciali mezzi privi di equipaggio avevano seguito da quel momento la rotta delle navi. Il ricognitore di Hawkins era il primo apparecchio pilotato che la marina terrestre avesse impiegato. La sua missione era di avvertire la nave ammiraglia nel momento in cui la flotta Kus avesse ripreso la rotta verso la Terra.
Cercò di accendere i razzi di decollo, per tornare nello spazio. Una volta lì, poteva ritrovare la piega e ripassarci attraverso. La leva d'accensione gli si ruppe fra le mani.
Fissandola, si accorse che non era più fatta di metallo ma di plastica. O se non era plastica, era una sostanza che gli assomigliava talmente da non poter essere chiamata in altro modo.
Ignorando la possibilità di potersi trovare ad anni luce di distanza dal sistema solare, cercò di chiamare via radio l'ammiraglia terrestre, solo per scoprire che la trasmittente si era trasformata in un'imitazione in plastica di se stessa.
Si accorse allora che il pannello di controllo aveva subito un'identica metamorfosi.
Batté col dito sul pannello. Emise un suono sordo, vuoto.
Batté sulle paratie, pestò i piedi sul ponte, ottenendo risultati simili.
Doveva credere che l'intera nave si fosse trasformata in plastica?
Guardò lo schermo. Si era trasformato in una finestra. Vide sabbia, sabbia, sabbia.
Hawkins era un tipo coi piedi per terra. Sapeva che doveva esserci una spiegazione logica per quanto era successo.
Aveva il morbo di Addison, e un medico della marina gli aveva dato poco tempo prima una nuova medicina. Tutte le medicine hanno effetti collaterali, e non c'era ragione di pensare che questa fosse un'eccezione alla regola. Forse aveva le allucinazioni.
L'idea lo riempì di sollievo. Molto meglio l'allucinazione di essersi infilato in una piega spaziale, con l'astronave trasformata in plastica, piuttosto che accettare entrambe le cose come vere. Da un momento all'altro l'illusione poteva svanire, e si sarebbe ritrovato nello spazio, a bordo di una vera nave.
Aspettò che quel momento arrivasse, ma non arrivò.
Ma forse prima o poi sarebbe successo. Mentre aspettava, poteva dare un'occhiata da vicino a quello strano mondo su cui pareva essere atterrato.
Entrò nella camera di decompressione, chiudendosi la porta interna alle spalle. Prese la tuta spaziale. Sembrava autentica. Ma non la indossò, perché in quel momento si accorse che il portello esterno era socchiuso, e i suoi polmoni erano già pieni di aria aliena.
Non c'era alcuna differenza, all'apparenza, fra quella e l'aria che aveva respirato fino a poco prima.
Spalancò il portello esterno e scese lungo la scaletta fino a terra. Il pianeta aveva gravità terrestre, ma questo l'aveva notato inconsciamente fin dal momento dell'atterraggio.
La luce del sole che si rifletteva sulla sabbia gli faceva male agli occhi, ma si adattò in fretta al bagliore. La nave era scesa in una grande depressione sabbiosa. Nulla vi cresceva. C'era da dubitare che vi fosse mai cresciuto qualcosa.
Non c'era alcuna traccia di vita intelligente. Ma questo non voleva dire che non ce ne fosse. Istintivamente portò la mano alla pistola cationica, che portava in una fondina sul fianco destro. Sentirla lo rassicurò, poi pensò: forse si è trasformata in plastica anche lei! Ma quando la estrasse e la esaminò, si accorse che non era così.
Si arrampicò sul pendio più vicino. La mancanza di ombra gli disse che il sole era a picco. I raggi erano caldi, ma non in maniera spiacevole.
Arrivato in cima al pendio, vide un'altra depressione, simile a quella da cui era uscito. E molto, molto lontano, si distingueva una piccola montagna. Aveva una strana forma: le pareti erano lisce, e si levavano bruscamente da una base più larga, anch'essa dalle pareti lisce.
A questo punto si accorse della presenza del vento. Gli fece venire in mente un mantice lontano; proveniva dalla direzione della montagna.
Lontano, alla sua sinistra, c'era una distesa d'acqua, scintillante sotto il sole, e lontano a destra si distingueva la parte superiore di una scarpata.
Era inutile cercare di determinare che pianeta fosse (ammesso che esistesse realmente) perché anche se si trovava ancora nello stesso universo, poteva trovarsi sul lato opposto della galassia.
Mentre il ricognitore scendeva, aveva potuto gettare solo un'occhiata al paesaggio, e anche se non aveva visto altro che sabbia (ma gli era sfuggito lo specchio d'acqua), sapeva che doveva esserci vegetazione, altrimenti non ci sarebbe stata aria.
Scese il pendio nella seconda depressione, l'attraversò, salì il pendio opposto. Camminare era difficoltoso, perché i piedi affondavano nella sabbia. Temeva che arrivando in cima avrebbe visto solo un'altra depressione. Invece, si trovò a guardare una piccola pianura sabbiosa. E posate su di essa in un ampio cerchio, come se fossero ancora nello spazio, con quel bizzarro disegno che tradiva la loro alienità, c'erano le navi della flotta Kus.

Hawkins si buttò a terra e strisciò indietro lungo il pendio, finché fu fuori vista. Poi, sollevandosi sullo stomaco, alzò la testa quel tanto che bastava per poter vedere le navi. Erano dodici, e malgrado la loro immobilità e la vicinanza fra di loro, davano l'impressione di essere in orbita attorno a un pianeta.
O erano penetrate nella stessa piega spaziale, o in una molto simile.
Sempre ammesso, ricordò a se stesso Hawkins, che io veda quello che credo di vedere e che non sia in preda a un'allucinazione.
Si chiese se l'avessero visto. Non c'era traccia di attività attorno alle navi aliene, ma questo non voleva dire che non ce ne fosse all'interno.
La nave ammiraglia si trovava a meno di mezzo chilometro da dove era steso lui. La cupola che copriva il ponte di osservazione scintillava sotto il sole. I Kus avrebbero potuto facilmente vederlo quando era arrivato sulla cresta.
Da un momento all'altro, uno dei cannoni della nave poteva puntare su di lui.
Tenne gli occhi fissi su di essi, pronto a rotolare giù per il pendio se uno si fosse mosso. Sapeva di comportarsi in maniera ingenua: una razza in grado di costruire navi interstellari certamente possedeva proiettili capaci di far saltare in aria l'intera altura insieme a lui. Eppure, rimase lì senza provare alcuna paura.
Alla fine si rese conto del perché. Il sole, mentre scintillava sulla cupola di osservazione, si rifletteva debolmente sullo scafo, e inconsciamente si era accorto a prima vista che le navi Kus avevano subito la stessa metamorfosi della sua.
Non aveva nulla da temere da cannoni di plastica.
Mentre rimaneva lì steso, si chiese se anche la flotta terrestre fosse passata attraverso una piega spaziale, e avesse subito la stessa metamorfosi. La logica diceva di no, che la presenza della sua nave e di quelle dei Kus era già abbastanza assurda. Ma la logica contava davvero qualcosa?
Non aveva visto la flotta terrestre durante la sua breve discesa, ma d'altra parte non aveva visto neppure quella Kus.
In base alle posizioni iniziali delle due flotte nello spazio, e alla posizione della sua nave, la flotta terrestre, se fosse passata attraverso una piega, avrebbe dovuto trovarsi nella direzione opposta a quella presa da lui lasciando il ricognitore. E dal momento che le distanze si erano ridotte, la flotta poteva benissimo trovarsi a pochi minuti di cammino.
L'avrebbe scoperto presto.

Era affamato e assetato quando raggiunse la sua nave. Salì a bordo ed entrò nella minuscola dispensa. Non fu eccessivamente sorpreso scoprendo che il cibo si era trasformato in plastica e che l'acqua era sparita. Per la prima volta dal suo arrivo, ebbe paura. E per quanto cercasse di convincersi di essere vittima di un'allucinazione indotta da medicinali, la paura non volle andarsene.
Non era un uomo che si spaventasse facilmente. Si era arruolato nella Marina spaziale terrestre per una sfida, ed era salito fino al grado di capitano di corvetta. Prima di essere contagiato dal morbo di Addison, aveva avuto due citazioni per il coraggio dimostrato in battaglia.
Prima di arruolarsi in marina, era stato pilota passeggeri sulla linea Luna-Terra. Aveva un'amante sulla Luna e una sulla Terra. Probabilmente, se non fosse già stato nella marina quando la nave della Stella di Barnard aveva trasmesso le foto della flotta Kus, si sarebbe arruolato anche senza la provocazione della sfida. Poiché il patriottismo era rinato: solo che non si applicava più ad una singola nazione, ma alla razza umana nella sua interezza.
La speranza che i visitatori alieni potessero essere bene intenzionati era svanita quando sulla Terra erano giunti i messaggi radio con cui i Kus, usando un traduttore semantico, rivelarono la loro identità e ordinavano ai popoli della Terra di arrendersi o di prepararsi a essere annientati.
Immediatamente tutte le nazioni avevano cominciato a costruire armi che, speravano i loro artefici, avrebbero superato quelle del nemico. Ma nessuno si illudeva che la battaglia sarebbe stata vinta facilmente poiché, anche se era improbabile che i cannoni con cui erano equipaggiate le navi Kus fossero superiori ai nuovi cannoni nucleari che venivano installati sulle navi terrestri, i Kus, come il leggendario cowboy che portava le pistole bene in vista sui fianchi, potevano avere una derringer nella manica.

Hawkins trovò la flotta terrestre in una piccola pianura a circa tre chilometri dalla depressione in cui si trovava la sua nave. La flotta era stata in orbita attorno alla Terra. Adesso era disposta nella la stessa maniera della flotta Kus: c'erano quattordici navi, e anch'esse davano l'impressione di essere ancora in orbita.
Il sole, che aveva superato da poco il mezzogiorno, illuminava scafi di plastica e cannoni di plastica. La cupola che copriva il ponte di osservazione dell'ammiraglia era simile a quello che copriva l'ammiraglia Kus, e scintillava non meno sotto il sole.
Apparentemente nessuno era sbarcato, perché non vide segno di vita, ma senza dubbio qualcuno sul ponte di osservazione doveva averlo scorto. Corse lungo il pendio, agitando le braccia. Non aveva alcuna paura di venir scambiato per un Kus, dal momento che una telecamera a raggi X installata su una delle sonde automatiche aveva rivelato che i Kus assomigliavano a coccodrilli.
Quando raggiunse l'ammiraglia, vide che il portello era aperto, e fu certo allora che l'avevano visto. Salì la scaletta ed entrò nella camera di decompressione. Aggrottò la fronte perché la porta interna era chiusa. L'aprì ed entrò in un corridoio. Perplesso per il fatto di non vedere nessuno, proseguì lungo il corridoio fino alla scaletta che portava al ponte d'osservazione e salì.
Sul ponte c'erano parecchi ufficiali della nave. Sembrava che stessero conversando, anche se non si sentiva parola. Uno di loro era l'ammiraglio. Hawkins corse da lui, e si mise sull'attenti. Pareva che non si fosse reso conto della presenza di Hawkins. E neppure gli altri ufficiali.
- Signore - disse Hawkins, - anche la mia nave è stata attirata in una piega. E anch'essa si è trasformata in plastica. La stessa cosa è accaduta alla flotta Kus. Signore, quale può essere la causa di tutto questo?
L'ammiraglio non batté ciglio. Hawkins non l'aveva mai incontrato, ma l'aveva visto da lontano. Era un uomo alto e freddo, veterano di due guerre. Una sfilza di nastrini dai vari colori gli ornava il petto. La sua uniforme azzurro-cielo era immacolata. La piega dei pantaloni era affilata come una lama di rasoio. La sua faccia era insieme slava e anglosassone: impassibile e severa. I suoi occhi erano azzurro chiaro.
Hawkins gli toccò il petto, spinse leggermente. L'ammiraglio cadde sulla schiena. Le braccia e le gambe mantennero la stessa posizione che avevano mentre era in piedi.
Hawkins buttò giù tutti gli altri ufficiali.
Sapeva che se avesse girato il resto della nave avrebbe scoperto che anche gli altri membri dell'equipaggio si erano trasformati in pupazzi di grandezza naturale. E lo stesso sarebbe successo esplorando le altre navi terrestri.
E sapeva che se fosse salito sulle navi Kus, avrebbe trovato pupazzi simili a coccodrilli.
Ma perché anche lui non si era trasformato in un pupazzo?
Ma questa non era la domanda corretta. La domanda corretta era: perché gli altri si erano trasformati? E perché due flotte e un ricognitore si erano trasformati in giocattoli per giganti?

Hawkins uscì dall'ammiraglia e si diresse verso la scarpata lontana. Da quell'altezza avrebbe potuto farsi un'idea più precisa dei dintorni.
Ad ogni passo, pregava che se quella era un'illusione da medicinali, sparisse rapidamente. Attraversò depressioni, superò alture, girò attorno a dune simili a colline Quando fu vicino alla scarpata, piegò verso un punto dove la sabbia s era accumulata quasi fino alla cima. Iniziò la lunga ascesa. Adesso aveva una corta ombra a tenergli compagnia.
Avvicinandosi ulteriormente alla scarpata, vide che era molto liscia E quando, terminata la salita, ne toccò la superficie, si accorse che era di legno. Rimase stupefatto, e ancor più lo fu quando, guardando prima a sinistra e poi a destra, si accorse che la scarpata era perfettamente a piombo.
Era arrivato a un'altezza sufficiente per raggiungere il bordo superiore. L'afferrò saldamente e si issò in cima. Alzandosi in piedi, si trovò su una superficie di legno, piatta e larga circa tre metri. Guardò nella direzione da cui era venuto, e vide una distesa di sabbia, e lontano, molto lontano, un bordo piatto che assomigliava alla parte superiore di un'altra scarpata. Individuò le due flotte, e il puntino scuro della sua nave, e lo specchio d'acqua che aveva visto in precedenza. Sembrava un piccolo lago.
Guardò nella direzione opposta. Il muro di legno (poiché questo era) scendeva vertiginosamente verso una vasta pianura verde. In lontananza vide diversi alberi la cui altezza superava quella del muro, e dietro di essi un edificio largo almeno sei chilometri, e alto tre.
Sentì il vento. Era un po' più di una brezza, e diverso dal vento simile a un mantice che veniva dalla montagna. Sentì il profumo dell'erba verde e dei fiori di campo.
Alla sua sinistra, nella direzione della montagna, individuò un pendio che portava dalla parete alla pianura. Sono arrivato fin qui, pensò, perché non andare oltre? Senza dubbio non serviva a niente tornare sulla nave. Sarebbe sceso lungo il pendio, e avrebbe raggiunto l'edificio sulla pianura. Doveva essere abitato da esseri intelligenti. Se non erano ostili, forse avrebbe scoperto dov'era.
Cominciò a camminare lungo la sommità del muro verso il pendio. Avvicinandosi, vide che era stato creato da un grosso cumulo di oggetti caduti contro la parete. Per un po' non riuscì a distinguere cosa fossero, e pensò che avrebbe potuto saltare da uno all'altro fino alla pianura. Ma quell'idea svanì quando fu abbastanza vicino da identificare quelli più alti, e si fermò, mentre le implicazioni di ciò che vedeva davanti a sé trasformavano le cellule rosse del suo sangue in cristalli di ghiaccio.

Un Gengis Khan di plastica sedeva in sella a un cavallo di plastica, anche se il cavallo era steso su un fianco. Un Teddy Roosevelt di plastica sedeva in sella a un altro cavallo di plastica, ed entrambi erano a testa in giù. Un MIG-15 di plastica giaceva fra i due intrepidi guerrieri.
Una Cleopatra e un Antonio di plastica erano avvinti in un focoso abbraccio, in mezzo a un William Jennings Bryan di plastica e a una Cadillac di plastica. La prua di una petroliera sporgeva grottescamente dal centro dell'enorme ammasso.
Vide un amerindo di plastica brandire un tomahawk di plastica. La figurina, a grandezza naturale, giaceva su un fianco. Vide un papa di plastica. Più in basso, scorse un sumero di plastica con una gamba rotta.
Uomini e cose, cose e uomini. Tutti fatti della medesima triste sostanza della sua nave, tutti gettati via come se chi aveva giocato con essi si fosse annoiato.
Pezzi rappresentativi del tutto.
Alzò gli occhi verso la montagna. Gli era parso di vederla muoversi. Il vento simile a quello di un mantice si era fatto più forte.
Sì, la montagna si era mossa. Era diventata più alta. Vide che c'erano piccoli alberi che crescevano sulla cresta. Cominciò a muoversi verso di lui, su gambe simili a colonne. I pendii più bassi si erano separati dalla montagna vera e propria, diventando braccia.
Nella mente gli tornarono dei versi della Rubaiyat:

Non siamo altro che Forme visionarie
che vanno e vengono infila, a mezzanotte,
attorno a questa lanterna magica illuminata dal sole
e mossa dal Signore dello Spettacolo.


All'inizio, pensò, c'era un gioco chiamato Sumer. A poco a poco, è diventato un gioco chiamato Terra.
Adesso c'è un gioco chiamato Spazio.
Si era messo a correre, lungo la cima del muro. Ridiscese lungo il cumulo di sabbia, nel recinto.
Mentre correva, una domanda gli martellava nella mente: Come aveva potuto spezzare i legami e fuggire alla Grande Illusione?
Il fatto che fosse un pezzo rappresentativo non significava nulla. In comune con gli altri membri della razza umana, aveva il fatto di essere una forma visionaria.
Avrebbe dovuto essere ancora nello spazio, sulla sua nave.
Tuonò. I passi della montagna. Una nuvola scura. Il braccio della montagna.
Corse nell'ombra della nuvola, verso la sua nave. Perché? Si chiese. Perché sto correndo verso la nave? È solo un giocattolo di plastica. Non può farmi decollare.
Ma conosceva la risposta. La sua nave era l'unico posto dove potesse andare.
Una nuvola più piccola. Scendeva dal cielo. La mano della montagna. Un dio bambino con un nuovo gioco. Una volta faceva veleggiare le sue navi in una pozza fangosa, che chiamava i Sette Mari. Adesso le fa volare nello spazio. Annoiato da quel gioco, si appisola, e mentre dorme uno dei pezzi prende vita. Cosa fa allora?
Hawkins sapeva cosa avrebbe fatto. Avrebbe raccolto il pezzo e l'avrebbe fatto a pezzi per scoprire cosa lo faceva funzionare. O magari, in un momento di rabbia, l'avrebbe schiacciato come una mosca.
Non poteva vedere la mano mostruosa, ma sapeva che era sopra di lui. Coprì ansimando gli ultimi metri. Montò sulla scaletta, si buttò nella camera di decompressione e chiuse il portello. Sentì un rumore sordo, metallico, mentre si sigillava; simultaneamente, la nave scintillò. Aprì la porta interna ed entrò nella cabina di controllo. Guardando nello schermo, non vide la sabbia, ma lo spazio.
Hawkins prese la scatoletta di pillole che gli aveva dato il medico e la buttò nello scarico. Aveva segnalato all'ammiraglia terrestre che la flotta Kus aveva ripreso la sua rotta verso la Terra, e adesso stava tornando a casa.
Aveva passato una brutta mezz'ora, ma alla fine tutto si era sistemato nella sua mente.
La storia umana non era una successione di giochi crudeli e infantili.
Non esisteva alcun pianeta degli dei.
L'unica piega che aveva attraversato era una piega nella sua mente.
Si sentiva stanco. Inserì il pilota automatico e si diresse verso la cuccetta. Prima di legarsi, si tolse gli stivali. Nel farlo, si accorse che c'era un po' di sabbia dentro.

FINE