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Urania - Asimov d'appendice
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LA LAMA BIOCHIMICA - Isaac Asimov
Titolo originale: The biochemical edge

Non molto tempo fa mi trovavo a teatro e aspettavo che si sollevasse il sipario, quando una signora dai capelli bianchi mi si avvicinò e disse: - Dottor Asimov, noi siamo stati compagni di scuola.
- Davvero? - dissi io, con la mia solita affabilità. - Non mi sembrate abbastanza vecchia per essere stata a scuola con me.
- Invece sì - fece lei. - Alla scuola elementare 202.
Ero galvanizzato, perché avevo frequentato la 202 dagli otto fino ai dieci anni. Glielo dissi.
- Lo so - disse lei. - Vi ricordo bene perché la maestra una volta ci disse che una certa città era la capitale di un certo stato, e voi subito saltaste su a dire che si sbagliava, e che la capitale era un'altra. Lei si mise a discutere con voi e voi all'ora di pranzo correste a casa, tornaste con un grande atlante e dimostraste di avere ragione. Non l'ho mai dimenticato. Ve ne ricordate?
Al che risposi, mesto: - No, in tutta franchezza non me lo ricordo, ma so ugualmente che quel bambino dovevo essere io, perché ero l'unico della scuola abbastanza stupido da offendere e umiliare un'insegnante solo perché mi rifiutavo di fingere di avere torto quando sapevo di avere ragione.
Poi, durante l'intervallo della commedia, dimostrai di essere tuttora più stupido che mai. Un'altra donna mi si avvicinò e mi chiese di farle l'autografo sul programma teatrale, e io naturalmente accettai.
- Voi siete la seconda persona a cui io abbia mai chiesto un autografo, dottor Asimov - mi disse.
- Chi è l'altra? - domandai.
- Laurence Olivier - rispose lei. Io sorrisi e feci per ringraziarla, ma sentii uscirmi di bocca queste parole: - Come si sentirebbe onorato Olivier, se sapesse di essere in così buona compagnia.
Intendevo fare una battuta, ovviamente, ma la donna si allontanò in silenzio senza accennare il benché minimo sorriso, e io capii di avere appena confermato la mia fama di persona spaventosamente vanitosa.
Non crediate, quindi, che non mi procuri un'acuta fitta di dolore, quando mi siedo a scrivere uno di questi articoli, il domandarmi, cosa che faccio regolarmente, se la mia innata stupidità verrà ancora una volta fuori. Speriamo che questa stupidità non trapeli mentre scrivo il quarto e ultimo dei miei articoli sulle vitamine.

Le molecole delle proteine sono composte interamente, o quasi interamente, da una o più catene di amminoacidi.
All'estremità di una catena c'è un "gruppo amminico", che è costituito da un atomo di azoto e due di idrogeno (-NH2). All'altra estremità c'è un "gruppo carbossilico", composto da un atomo di carbonio, due di ossigeno e uno di idrogeno "-COOH" (È per questo che è chiamato amminoacido).
Tra il gruppo amminico e il gruppo carbossilico c'è un singolo atomo di carbonio che è legato sia a un gruppo sia all'altro. Quest'atomo di carbonio ha due legami supplementari, il primo con un atomo di idrogeno, il secondo con una "catena laterale".
Questa catena laterale può essere costituita da un altro atomo di idrogeno, oppure da uno dei vari gruppi di atomi contenenti carbonio. Gli amminoacidi che si trovano nelle molecole delle proteine differiscono l'uno dall'altro per la natura delle loro catene laterali. Esistono venti diversi amminoacidi che si trovano in quasi tutte le molecole delle proteine isolate dai tessuti viventi, e ciascuno ha una diversa catena laterale.
Gli amminoacidi si combinano insieme quando il gruppo amminico di uno di essi si lega al gruppo carbossilico di un altro. La catena di amminoacidi è costituita da una lunga successione di legami del genere, e la caratteristica più importante di tale catena è che le catene laterali restano intatte e sporgono come ciondoli di un braccialetto.
Tutte le catene di amminoacidi tendono per natura a curvarsi, flettersi e piegarsi su se stesse in punti particolari, sicché formano un oggetto tridimensionale, dal quale le catene laterali sporgono qui e là come lanugine. Alcune catene laterali sono piccole, altre grosse; alcune non hanno carica elettrica, altre hanno carica elettrica positiva, altre ancora carica elettrica negativa; alcune tendono a sciogliersi nell'acqua ma non nei grassi, altre a sciogliersi nei grassi ma non nell'acqua.
Ogni particolare configurazione produce una proteina che ha sulla superficie una particolare struttura di catene laterali, e a ogni particolare struttura di catene laterali corrisponde una molecola proteica dalle proprietà peculiari.
Il numero di possibili configurazioni in una catena composta da centinaia di amminoacidi di venti diversi tipi è inimmaginabile. Se la catena contenesse solo venti amminoacidi, uno di ciascun tipo, il numero di configurazioni supererebbe di poco i 2.400.000.000.000.000.000 (quasi due miliardi e mezzo di miliardi).
Pensate a quale sarebbe il numero di configurazioni possibili se ci fossero gruppi di decine di amminoacidi di ciascun tipo sparsi a caso lungo la catena. Una volta ho calcolato che gli amminoacidi di una molecola di emoglobina potevano essere disposti in uno qualsiasi di 10e+620 modi (ossia un 1 seguito da 620 zeri). La somma di tutte le molecole di emoglobina che sono esistite in tutti gli organismi contenenti emoglobina vissuti sulla Terra nel corso dell'intera storia è niente in confronto a tale cifra. In confronto a essa non è niente nemmeno il numero di tutte le particelle subatomiche dell'universo.
Non c'è da stupirsi, quindi, che le molecole delle proteine possano produrre un numero praticamente infinito di superfici, per cui è relativamente facile trovarne una che sia particolarmente adatta a una funzione specifica. È questo che rende la chimica della vita qualcosa di enormemente complesso e delicato, ed è per questo che più di tre miliardi di anni fa la vita, partendo dalle molecole proteiche più semplici, ha potuto diversificarsi a tal punto da generare decine di milioni di specie diverse, delle quali almeno due milioni esistono tuttora.
Certe proteine sono assai comuni e sono reperibili in grande quantità nei vari organismi viventi. C'è per esempio la cheratina, che si trova nella pelle, nei capelli, nelle corna, negli zoccoli e nelle penne, e ci sono il collagene, presente nella cartilagine e nel tessuto connettivo, la miosina, presente nei muscoli, e l'emoglobina, presente nel sangue.
Se però invece di prendere in considerazione l'enorme quantità di questa massa concentriamo l'attenzione sui diversi tipi di proteine conosciuti, ci accorgiamo che la stragrande maggioranza di esse è costituita da enzimi. Ci sono circa duemila diversi enzimi già conosciuti e studiati, ed è assai probabile che ne esistano molti che i biochimici non hanno ancora isolato. Inoltre, di ciascun enzima possono esserci parecchi tipi leggermente differenti.
Ogni enzima ha una superficie dotata di forma, carica elettrica e tendenza chimica peculiari. Ciascuno, quindi, può legarsi a un numero ristrettissimo di molecole affini tra loro, o addirittura a una sola molecola tout court, e può fornire l'ambiente che permette una rapida reazione chimica soltanto a quelle poche o a quell'unica. In assenza dell'enzima, la stessa reazione chimica potrebbe avere ugualmente luogo, ma assai lentamente.
Poiché il numero di superfici della cui esistenza e utilità abbiamo prove dirette è del tutto insignificante in confronto al numero di quelle potenzialmente esistenti, c'è ampio spazio per un'ulteriore evoluzione e perché si formino nuove innumerevoli specie.
Anche se nella nostra galassia milioni di pianeti fossero brulicanti di una vita basata sulle molecole proteiche, è chiaro che ciascun pianeta potrebbe avere milioni di specie completamente diverse da quelle reperibili su qualsiasi altro pianeta. Anzi, la possibilità di trovare su differenti pianeti molecole affini (o, ipotesi più improbabile che mai, capaci di combinarsi) in pratica non esiste.

Basta la struttura della catena laterale a permettere a una molecola proteica di compiere il suo lavoro con estrema efficacia, e alcuni enzimi sono composti soltanto da catene di amminoacidi. La pepsina e la tripsina, gli enzimi digestivi che ho menzionato nell'articolo della volta scorsa, appartengono a questo tipo. Tali proteine, composte unicamente di amminoacidi, sono (come ho detto al termine dell'articolo precedente) "proteine semplici".
È possibile, però, che nelle molecole delle proteine siano compresi raggruppamenti di atomi che non sono amminoacidi. Di solito le molecole proteiche sono composte in gran parte da amminoacidi, per cui continuiamo a ritenerle proteine, ma la parte che non è costituita da amminoacidi può essere importante, e addirittura essenziale per il funzionamento della molecola.
Gli enzimi contenenti raggruppamenti di atomi che non sono amminoacidi si chiamano "proteine coniugate" ("Coniugate" viene dal participio passato del verbo latino coniugare e significa "congiunte", dato che il gruppo non proteico è unito alla catena di amminoacidi).
Ci sono vari tipi di proteine coniugate, che si differenziano tra loro in base alla natura del gruppo non proteico. Per esempio, se le molecole delle proteine sono unite ad acidi nucleici si hanno le "nucleoproteine", se sono unite a sostanze di tipo grasso si hanno le "lipoproteine", se sono unite a sostanze di tipo zuccheroso le "glicoproteine", se sono unite a gruppi fosfatici le "fosfoproteine", e così via.
La parte non proteica può essere legata saldamente alla catena di amminoacidi, e in tal caso si chiama "gruppo prostetico" ("Prostetico" viene dal greco prostithénai, che significa "aggiungere". Il gruppo prostetico, infatti, è aggiunto alle molecole delle proteine).
A volte, però, il gruppo prostetico non è legato saldamente alle molecole della proteina e può essere rimosso anche con un trattamento blando, il che accade spesso con gli enzimi; e il gruppo prostetico facilmente rimuovibile si chiama "coenzima", per ragioni che spiegherò brevemente.
Anche quando un enzima possiede un coenzima con una struttura enormemente diversa da quella delle proteine, è sempre la catena di amminoacidi dell'enzima a fornire la superficie necessaria e a determinare la specificità enzimatica (la capacità di un enzima di agire in combinazione con un unico tipo di molecola o, al massimo, con un ristrettissimo numero di molecole). Quando è stata selezionata la molecola giusta, il coenzima è in grado di produrre la reazione chimica desiderata.
Possiamo fare un'analogia e considerare l'enzima un bastone che può da solo, senza alcun ausilio esterno, compiere bene una funzione, come quella di colpire in testa un nemico perché capisca che ha torto. Si può anche, però, attaccare all'estremità del bastone un oggetto non di legno, come un osso, un sasso o una punta di metallo, in modo da rendere l'aggressione più efficace. Oppure al supporto di legno si può fissare una lama affilata, così da ricavarne un coltello o un'ascia.
L'impugnatura non è di per sé molto utile quando si usa lo strumento come un coltello, e d'altro canto la lama, da sola, è difficile da manovrare. Le due cose insieme, però, compiono la loro funzione straordinariamente bene.
La parte di enzima composta di amminoacidi è dunque simile al manico del coltello, mentre il coenzima è simile alla lama che serve a tagliare. Ma tenete presente che alcuni enzimi (come alcuni bastoni) non hanno bisogno di altri apporti per compiere il loro lavoro.

Per effettuare analisi adeguate, di solito è desiderabile ottenere gli enzimi allo stato più puro possibile. Non è un'impresa facile. Nelle cellule la concentrazione di un dato enzima è molto piccola. Sono presenti assieme a esso molti altri enzimi, delle proteine che non sono enzimi, altre grandi molecole come quelle degli acidi nucleici, e piccole molecole come quelle degli zuccheri, dei grassi, dei singoli amminoacidi, e così via.
Sono stati elaborati numerosi metodi per separare le proteine l'una dall'altra e da altre grandi molecole, e, prendendo le varie frazioni per verificare quale produca più rapidamente la reazione che ci interessa, possiamo selezionare a poco a poco l'enzima desiderato, e ottenerlo a uno stato abbastanza puro e concentrato.
Bisogna però che ci liberiamo di tutte le molecole piccole. A noi interessano le molecole dell'enzima e nient'altro, a parte l'acqua nel quale esso è in soluzione (In teoria non ci interessa neppure l'acqua, ma ci piacerebbe ottenere le molecole dell'enzima in forma cristallina, ossia soltanto l'enzima e assolutamente nient'altro).
Per liberare il campo dalle piccole molecole, i biochimici usano le "membrane semipermeabili". Si tratta di sottili membrane come quelle che servono attualmente da involucro per le salsicce. Sono così sottili, e hanno molecole che si uniscono in maniera così poco compatta, da lasciare spazio a minuscoli fori. Questi forellini sono naturalmente invisibili, perché hanno dimensioni molecolari. Anzi, sono troppo piccoli perché molecole grandi come quelle delle proteine (composte da centinaia, o addirittura migliaia, di atomi) vi passino attraverso, ma molecole più piccole costituite da poche decine di atomi possono passarvi attraverso. È per quello che la membrana si definisce "semipermeabile": è permeabile ad alcune molecole, ma non ad altre.
Supponete, allora, che una certa quantità di soluzione enzimatica sia messa in un involucro costituito da una membrana semipermeabile, e che poi questo involucro venga staccato e sospeso in un grande becher pieno d'acqua. Alcune delle piccole molecole all'interno dell'involucro riescono con semplici spostamenti casuali a passare nell'acqua attraverso i forellini della membrana. Le molecole piccole fuoriescono in numero crescente, mentre le grandi molecole dell'enzima restano immobili. Naturalmente è anche possibile che le molecole piccole, una volta arrivate nell'acqua, ritornino attraverso i fori nell'involucro contenente la soluzione enzimatica. Alla fine si stabilisce un equilibrio per cui le molecole piccole si spostano in entrambe le direzioni allo stesso ritmo, sicché la concentrazione resta uguale. Tuttavia, poiché il volume all'interno dell'involucro è di solito assai inferiore a quello all'esterno dell'involucro, al momento in cui si stabilisce l'equilibrio la maggior parte delle molecole piccole si trova fuori, nell'acqua.
Se quando si raggiunge l'equilibrio le molecole piccole rimosse non sono in numero sufficiente, si può sempre mettere l'involucro con la soluzione enzimatica in un altro campione d'acqua e stabilire un nuovo equilibrio nel quale la concentrazione di molecole piccole all'interno dell'involucro sia ancora inferiore. Anzi, si potrebbe addirittura continuare a far scorrere l'acqua dentro il becher a una delle estremità, e fuori dal becher all'altra estremità, in modo che intorno all'involucro con la soluzione enzimatica ci fosse sempre acqua fresca. In quel caso praticamente tutte le piccole molecole verrebbero rimosse.
Questo processo è chiamato "dialisi" (che deriva dal verbo greco dialyein, che significa "sciogliere in mezzo, separare", perché possiamo dire che le molecole piccole vengono separate da quelle grandi e fatte passare attraverso la membrana).
Nel 1904 un biochimico inglese, Arthur Harden (1865-1940), era tutto intento a purificare la zimasi (l'enzima che ho menzionato nell'articolo della volta scorsa). La dialisi fu uno dei metodi che usò. Mise una soluzione di zimasi in un involucro formato da una membrana semipermeabile e introdusse l'involucro in un becher pieno d'acqua. In tal modo si liberò della maggior parte delle molecole piccole.
Così facendo, però, scoprì, con suo grande stupore, che la zimasi all'interno dell'involucro non produceva più alcuna fermentazione. Tuttavia, quando Harden aggiunse l'acqua fuori dell'involucro alla soluzione enzimatica, il miscuglio diventò di nuovo attivo.
Sembrava dunque che l'enzima consistesse di due parti legate insieme così poco saldamente, che perfino la blanda azione della dialisi era sufficiente a separarle. Una parte era composta da grandi molecole che non potevano passare attraverso la membrana, mentre l'altra era composta da piccole molecole che potevano fuoriuscire dai fori, ed entrambe le parti erano, insieme, "essenziali al processo che induceva la fermentazione.
Inoltre, la zimasi all'interno dell'involucro cessava di essere attiva sotto l'azione del calore, il che dimostrava che si trattava di una proteina. Le molecole delle proteine sono talmente grandi e complesse da essere, per così dire, piuttosto malferme. La vibrazione delle loro varie parti, che aumenta con l'aumentare della temperatura, ben presto distrugge la loro struttura, disgrega la superficie molecolare e naturalmente elimina l'attività enzimatica. Il raffreddamento non basta da solo a ristabilire l'attività enzimatica così neutralizzata, né basta a ristabilirla l'aggiunta del materiale proveniente dall'acqua esterna all'involucro.
Il materiale fuori dell'involucro può però essere portato a ebollizione e, dopo che si è raffreddato fino a raggiungere di nuovo la temperatura ambiente, è ancora in grado di rendere attiva la zimasi (purché questa non sia stata a sua volta riscaldata). Il materiale esterno, quindi, non è una proteina. L'enzima, concluse Harden, è composto da una parte proteica e da una parte non proteica. Il biochimico inglese chiamò la parte non proteica "cozimasi": il prefisso "co" deriva dal latino cum, che significa "insieme", e infatti la parte piccola agisce insieme con quella grande.
Per questa scoperta e per le altre sue ricerche sulla fermentazione, Harden condivise nel 1929 il premio Nobel per la chimica con un altro scienziato.
Si scoprì alla fine che l'attività congiunta delle due parti, una grande proteica e una piccola non proteica, era caratteristica di parecchi enzimi (ma non di tutti). Negli enzimi composti da due parti di questo tipo, il gruppo proteico fu chiamato "apoenzima", perché il prefisso "apo", derivante dal greco apò, significa "da" in senso di allontanamento e dunque di separazione. L'apoenzima è la parte di enzima che resta quando la frazione più piccola viene rimossa. La parte non proteica fu definita "coenzima", e la cozimasi di Harden finì per essere chiamata "coenzima 1". Le due parti, insieme, costituiscono l'oloenzima (il prefisso "olo" viene dal greco hòlos, che significa "tutto", "intero"). In realtà i termini apoenzima e oloenzima sono usati raramente, mentre "coenzima" è ormai una parola di uso comune in biochimica.
A condividere nel 1929 il premio Nobel con Harden fu il chimico tedesco-svedese Hans Karl von Euler-Chelpin, che a sua volta compì notevoli ricerche sulla fermentazione. Euler-Chelpin decise di affrontare il problema della struttura molecolare del coenzima 1. Cominciò con l'isolare il coenzima 1 dal lievito, poi lo purificò e lo portò a una concentrazione 400 volte superiore al normale. Alla fine ebbe abbastanza materiale a disposizione da effettuare un'analisi dettagliata, che completò nel 1933.
Risultò che il coenzima 1 aveva una forte somiglianza con le unità nucleotidiche da cui sono costituiti gli acidi nucleici, ma differiva da esse soprattutto perché conteneva, come parte integrante della struttura, un gruppo piridinico composto da un anello di cinque atomi di carbonio e un atomo di azoto. Conteneva anche due gruppi fosfatici, sicché fu definito "difosfopiridinnucleotide" o, più brevemente, "DPN".
Un altro coenzima, il cosiddetto coenzima 11, differiva dal DPN solo in quanto conteneva un terzo gruppo fosfatico, per cui fu chiamato "trifosfopiridinnucleotide", o "TPN".
Conosciamo circa duecento enzimi che hanno per coenzima il DPN o il TPN. L'azione del DPN e del TPN determina il passaggio di un paio di atomi di idrogeno da una molecola a un'altra. Questo tipo di reazione chimica è vitale per la produzione di energia, e gli enzimi che la producono sono chiamati "deidrogenasi".
La parte proteica della deidrogenasi fornisce la superficie a cui si adatta bene una particolare molecola. I duecento diversi apoenzimi forniscono la superficie adatta a duecento diverse molecole, e il DPN o il TPN sono quindi, in ciascuna di queste molecole, la "lama biochimica" che effettua il "taglio", ma che, per essere davvero uno strumento utile, ha bisogno del "manico" dato dall'apoenzima selettivo.
La cosa più interessante, nel DPN e nel TPN, è che l'anello di piridina da cui è formata in parte la molecola risulta essere, quando viene separato dal resto, una molecola di nicotinammide. E, come ho osservato in uno dei precedenti articoli, la nicotinammide è la vitamina la cui assenza dalla dieta provoca la pellagra, una delle malattie da carenza vitaminica.
Se dalla dieta viene a mancare la nicotinammide, l'organismo non può sintetizzare il DPN o il TPN, per cui le deidrogenasi non compiono più il loro lavoro e le cellule non riescono a funzionare normalmente. I sintomi della pellagra sono solo alcuni degli indici di questa impasse.
Inoltre, a mano a mano che i biochimici definivano la struttura di un numero crescente di coenzimi, risultò che varie vitamine erano spesso incluse nella struttura dei coenzimi stessi. Nella dieta, quindi, devono essere presenti le vitamine che servono a sintetizzare i coenzimi che consentono agli enzimi chiave di agire. Senza le vitamine, all'interno delle cellule non si verificano reazioni cruciali, sicché possono insorgere malattie capaci di condurre, infine, alla morte.
Poiché gli enzimi sono dei catalizzatori, nell'organismo occorrono solo in piccole quantità. Anche i coenzimi, dunque, sono necessari solo in piccole quantità e lo stesso discorso vale, di conseguenza, per le vitamine; ma tali quantità, per quanto piccole, sono assolutamente essenziali alla vita.
(Alcuni enzimi agiscono efficacemente solo in presenza di un atomo di metallo, ed è questo il motivo per cui è indispensabile che nella dieta siano comprese quantità in tracce di metalli come il rame, il manganese e il molibdeno. Inoltre esistono veleni che, anche solo in minime quantità, possono porre rapidamente fine alla vita umana. Essi agiscono combinandosi con enzimi o coenzimi essenziali in modo tale da bloccarne il funzionamento.)
Ma come mai l'organismo umano non può sintetizzare la parte di coenzima 1 costituita da nicotinammide? Dopotutto, riesce a sintetizzare facilmente il resto della molecola.
Certe forme di vita sono in grado, senza eccezioni, di sintetizzare tutte le complesse strutture molecolari necessarie al loro funzionamento usando come materiale primario molecole assai semplici che esistevano nell'ambiente ancor prima che nascesse qualsiasi organismo vivente.
Le cellule vegetali, per esempio, iniziano il processo servendosi dell'acqua, dell'anidride carbonica e di determinate sostanze minerali presenti nel mare e nel suolo, e sfruttano l'energia fornita dalla luce solare, presente anch'essa fin dai primordi. Partendo da tali elementi, sintetizzano tutte le sostanze di cui hanno bisogno.
I microrganismi e le cellule animali che non possono utilizzare la luce del sole come fonte fondamentale di energia devono ricavare quest'ultima dall'ossidazione di materiali organici prodotti in origine dalle piante. Una volta ottenuta l'energia, possono dare avvio al processo sfruttando materiali relativamente semplici e accumulando le complesse molecole di cui hanno bisogno. Tuttavia è chiaro, ovviamente, che per procurarsi l'energia e quindi per vivere dipendono dal mondo vegetale.
(Alcuni microrganismi - abbastanza pochi - sono "chemiosintetici" e possono ricavare l'energia sfruttando reazioni chimiche in cui non sono coinvolte sostanze organiche.)
Supponete che a un organismo occorrano piccole quantità di una particolare molecola e che queste piccole quantità possano essere assorbite attraverso il cibo che l'organismo consuma. L'organismo potrebbe perdere la capacità di sintetizzare le molecole e finire per dipendere da ciò che la dieta gli fornisce. Più un animale è evoluto e complesso, più è probabile che questo succeda.
Come mai? Personalmente ho l'impressione che più un organismo è complesso, più enzimi siano necessari per farlo funzionare. Gli animali, per esempio, hanno muscoli e nervi che le piante invece non hanno, e devono sfruttare reazioni mediate dagli enzimi, di cui le piante possono fare a meno. Negli organismi complessi dev'esserci lo spazio per i vari enzimi che controllano miriadi di reazioni con le quali gli organismi semplici non devono fare i conti.
Ma se alcune reazioni sono necessarie solo in minimo grado, perché non eliminarle? Non può provvedere ad esse la dieta, in modo che così ci sia spazio per altre cose? (Si potrebbe anzi sostenere che le cellule animali, facendo a meno del complesso apparato necessario alla fotosintesi e mangiando cellule vegetali per ottenere energia dalla dieta anziché dal sole, lascino spazio alle funzioni animali più complesse).
Naturalmente, su alcune cose non si può fare economia. Se una data molecola piccola occorre in forti quantità, non basta fare affidamento sulla dieta per rifornirsi della sostanza in questione: si correrebbe un rischio troppo grande. Il rischio è accettabile solo quando le quantità che occorrono sono piccole.
Così, dei venti amminoacidi che si trovano in genere nelle proteine, l'organismo umano può accumularne fino a dodici, assorbendoli da frammenti di altre molecole che trova nel cibo. Se nella dieta mancano l'uno o l'altro di questi dodici amminoacidi, l'organismo può sintetizzarli sfruttando le proprie risorse, ma gli tocca conservare lo spazio per la serie di enzimi che gli consente il processo di sintesi.
Il corpo umano però non è in grado di sintetizzare gli altri otto amminoacidi, che devono quindi essere presenti in quantità sufficiente nella dieta. Perciò questi otto sono definiti "amminoacidi essenziali", non perché siano più essenziali degli altri al funzionamento dell'organismo, ma perché sono componenti fondamentali della dieta, senza i quali possono insorgere malattie da carenza letali.
Perché proprio questi otto? Perché sono quelli che occorrono in quantità minore, sicché è più sicuro correre dei rischi con essi che con gli altri.
Si dà il caso che le vitamine contengano raggruppamenti di atomi che non sono reperibili altrove, nell'organismo. L'organismo utilizza un raggruppamento di atomi di nicotinammide solo e unicamente nel coenzima 1 e nel coenzima 11. Perché mantenere enzimi per la sintesi di un simile raggruppamento? Non si potrebbe invece assorbire la sostanza necessaria mangiando qualche organismo meno complesso che può permettersi il lusso di conservare spazio per gli enzimi?
Ma come fa il corpo umano a sapere quali sostanze può assorbire attraverso la dieta senza correre il rischio di una grave carenza, e quali invece non può assorbire in questo modo? Gli è impossibile saperlo.
Ogni tanto, in seguito a una mutazione casuale, nascono organismi privi di un particolare enzima. Se questa carenza di enzimi toglie all'essere vivente la capacità di sintetizzare le sostanze che la sua dieta non può fornirgli in quantità adeguate, ben presto esso muore. Tuttavia, se per caso l'enzima che manca controlla la sintesi di qualcosa che occorre solo in tracce, l'organismo può assorbire quel qualcosa dalla dieta, e allora continuerà a vivere. Dalla situazione potrebbe addirittura trarre vantaggio, dato che altre capacità chimiche troverebbero spazio per svilupparsi meglio.
Naturalmente acquisire queste nuove, complesse capacità ha un prezzo: si deve infatti stare più attenti alla dieta di quanto non si dovrebbe se la situazione fosse diversa, ma a quanto pare il prezzo che si paga per questi benefici non è caro. La maggior parte degli animali, che sono costretti ad assumere solo il cibo che trovano in natura, sono indotti dall'istinto e dalle papille gustative a mangiare ciò che fornisce loro le sostanze necessarie.
Gli esseri umani, invece, hanno la facoltà di gingillarsi con il cibo, raffinando certi alimenti per conservare le parti più gustose o che si mantengono meglio e buttando via il resto. Si divertono a bollire, friggere, arrostire, salare, essiccare, zuccherare e fare altre cose che migliorano il sapore o aiutano a conservare meglio il cibo; negli ultimi anni, hanno cominciato anche ad aggiungere agli alimenti una miriade di additivi chimici. In questo modo diventa più rischioso fare affidamento sulla dieta per assorbire le sostanze che il nostro organismo non può sintetizzare e che ci sono assolutamente necessarie.
D'altro canto, adesso abbiamo le vitamine sintetiche, le pillole contenenti minerali e via dicendo. Possiamo ancora morire di malattie da carenza se i nostri gusti ci trascinano nella direzione sbagliata o se, semplicemente, il nostro ambiente o le nostre condizioni economiche non ci permettono di mangiare a sufficienza o di avere una dieta sufficientemente variata. Ma adesso almeno sappiamo abbastanza sull'argomento da evitare un simile destino, con l'aiuto di un pizzico di fortuna e di un pizzico di buon senso.

FINE