Science Fiction Project
Urania - Racconti d'appendice
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UN MISTERO FALSO E UNO VERO - Marzio Tosello

I maya conoscevano il segreto del volo?
C'è qualcuno che afferma di sì: noi proviamo a dimostrare il contrario.


In una delle tante città morte lasciateci in eredità dalla civiltà maya, Palenque, esiste una piramide che sostiene un edificio noto come Tempio delle Iscrizioni. Il nome gli è derivato dal fatto che ai lati dell'ingresso centrale della seconda sala del tempio, sulla parete di fondo, si trovano una serie di pannelli che recano scolpiti ben 620 glifi. È la più lunga iscrizione rinvenuta nell'area di civiltà maya subito dopo quella della scala di Copàn.
Palenque era stata scoperta una prima volta da un gruppo di avventurieri spagnoli in cerca di tesori nella giungla, e ufficialmente visitata da uno studioso, lo Stevens, fin dal 1750. Negli anni dal 1832 al 1834 vi soggiornò Frédéric de Waldeck, il quale si dichiarerà convinto di aver scoperto teste di elefante nelle iscrizioni geroglifiche che ornano alcuni dei palazzi. La sua erronea interpretazione, e i disegni che portò in Europa, crearono un notevole scompiglio fra gli studiosi, che ben sapevano che gli elefanti erano scomparsi dal continente americano da numerosi millenni. Questa rivelazione spostava la fondazione della città a un remotissimo passato. Citiamo questo episodio altamente istruttivo di come un'ottica errata, o il desiderio di leggere qualcosa che non esiste nei segni del passato, è cosa ancor oggi comunissima, ed è il motivo per cui scriviamo queste note.
Nel 1840 Palenque fu visitata da John L. Stephens e da Frederik Catherwood, un insuperabile disegnatore cui dobbiamo ancora oggi la resa perfetta dei dettagli di numerose sculture dell'area centroamericana, difficilmente restituibili con una macchina fotografica. I due riuscirono comunque nella difficile impresa di fornire un quadro obiettivo della realtà di Palenque (per i dettagli, si può proficuamente leggere il volume Alla ricerca dei Maya di von Hagen).
Soltanto grazie al lavoro di Désiré Charnay, i dubbi avanzati da più parti su supposte reminiscenze egizie o cartaginesi vennero fugati: per suo merito si riconobbero definitivamente nei monumenti di Palenque influenze tolteche. Siamo arrivati così al 1857.
La piramide e il tempio che la sovrasta divennero meta dei pellegrinaggi numerosi studiosi e turisti, fino al colpo di scena del 1949. Durante una visita di studio l'archeologo messicano Alber Ruz Lhuillier notò sei perforazioni una lastra di pietra incastrata nel pavimento del vestibolo, chiuse da altrettanti tappi in pietra. La lastra, rimossa con grande cautela (in tutto, i lavori di rinvenimento della camera funeraria durarono tre anni: l'archeologia è fatta anche, e soprattutto, di pazienza) rivelò l'ingresso di un corridoio a volta che sprofondava nelle viscere del tempio. Si trattava di una vera novità nel campo dell'archeologia classica maya.
Quarantotto gradini più in basso gli archeologi si imbatterono in un muro che nascondeva una grande lastra triangolare incastrata verticalmente. Alla sua base si trovava una rudimentale sepoltura contenente sei scheletri, di cui uno femminile. Quando il pannello, con circospezione e immensa fatica, venne fatto ruotare, gli studiosi si trovarono di fronte a una sala a volta alta sei metri e sessanta, lunga nove e larga tre. Tra colate di calcare che rendevano l'ambiente simile a una grotta incantata, agli occhi degli archeologi si presentarono nove personaggi che vegliavano su un sarcofago chiuso da una grande lastra di pietra lunga tre metri, larga due e venti e con uno spessore di 25 centimetri. Ai piedi del sarcofago furono rinvenute due teste di stucco di pregevolissima fattura, fra le più belle trovate nell'area centramericana.
La superficie di questo monolito era interamente coperta da un bassorilievo che mostrava un uomo assiso in bilico su una maschera raffigurante il guardiano del mondo inferiore, il dio della morte.
Vediamo ora, nel dettaglio, scopi e significati di questo bassorilievo che così tanto ha fatto parlare di sé. L'uomo raffigurato - si tratta del governatore Pacai - fissa la croce che si trova davanti a lui e che è in tutto simile a quella del Tempio della Croce. Ovviamente non ha alcun riferimento alla simbologia cristiana, perché per i maya la croce simboleggia il mondo, è immagine del tempo e della rotazione dei poteri. La parte inferiore della croce è formata da piante stilizzate di mais, e rappresenta la fertilità della terra. Dai bracci orizzontali della croce guizzano teste di serpente che sputano una serie di omuncoli.
Il tutto è sormontato da un uccello quetzal, il Moan, che simboleggia la morte e, anche, il sorgere del sole.
Il bassorilievo trabocca di significati simbolici, diversi dei quali di incerta e controversa lettura: in basso troviamo il dio della morte che, poiché è legato al mondo sotterraneo, è anche il dio della terra feconda secondo la tipica ambiguità teologica maya. L'uomo raffigurato più in alto assomiglia ad altre raffigurazioni del dio del mais, per cui è stata avanzata l'ipotesi che sia un'incarnazione della germinazione. Più su ancora si trovano i simboli di autorità e potere, con il bastone da cerimonia sorretto dalla croce che simboleggia 1' universo quadripartitico.
Tutt'attorno una bordura di glifi in cui si riconoscono il Sole, la Luna, Venere e sei teste d'uomo. I 52 glifi scolpiti sulle pareti laterali della lastra datano la sepoltura al 633 d. C.
Nel novembre del 1952 la lastra venne finalmente sollevata e nel sarcofago fu rinvenuto lo scheletro dipinto di rosso - il colore della vita - di un uomo. La maschera di giada che ne copriva il volto si era rotta ed è stata ricostruita in seguito.
Dal sarcofago usciva un lungo tubo d'argilla a forma di serpente che risaliva tutta la scala per raggiungere la lastra verticale che divideva il mondo dei defunti da quello dei vivi.
Poiché il tetto della camera mortuaria si trova a due metri sotto il livello del suolo, è chiaro che è stato edificato prima il sarcofago e solo in seguito, a titolo commemorativo, la piramide e il tempio che la sovrasta. Questo tipo di tomba, insolito nella civiltà maya, è a tutt'oggi un interrogativo aperto su cui dibattono gli archeologi.
Alla fine degli anni Sessanta persone senza troppi scrupoli intellettuali fecero circolare versioni, artatamente "sporcate" nei punti strategici, della lastra di Palenque, leggendola come un più che chiaro riferimento a un astronauta seduto in un razzo spaziale. Infatti, nella versione pubblicata più volte su diversi volumi che pubblicizzano il nostro pianeta come luogo vacanziero di civiltà aliene, i capelli e l'acconciatura di Pacai diventano una macchia che può benissimo leggersi come "qualcosa che ricorda le antenne"; l'uccello Moan, reso irriconoscibile come tale, può essere visto come "le turbolenze dell'aria davanti al muso del razzo"; la testa tricipite del dio della morte può trasformarsi nel motore del razzo stesso, e così via. In questa versione "censurata" nessuno può rendersi conto che la testa dell'astronauta è fuori dal veicolo che sta pilotando: quanto meno una stravaganza che un terrestre non può permettersi (almeno, non ancora), oltre ad altre incongruenze, quali le teste di serpente che fuoriescono dalla cima del razzo e amenità simili. Per cui, la cosiddetta "sepoltura dell'astronauta" andrà, da parte di quei (ci auguriamo) pochi che ancora tale la considerano, riposta assieme all'ingombrante bagaglio dei sogni assurdi, per ritrovare una sua più giusta dimensione di mistero: perché quel tipo di sepoltura? Anch'esso è un mistero affascinante anche se più terra terra, ma non è certamente banale.
Un'ultima osservazione: fra le altre assurde teorie che riguardano le civiltà precolombiane si trovano frasi come: "Esistono enormi teste di basalto che non possono essere esposte nei musei perché nessun ponte fra quanti ne esistono in Messico ne reggerebbe il peso". A parte il piccolo ma non trascurabile dettaglio che numerose sono le teste in basalto della civiltà olmeca esposte nei musei messicani - e non è giunta notizia che i ponti siano crollati al passaggio dei manufatti - ricordiamo le misure di una delle più gigantesche di esse, quella che si trova a La Venta, ancora nel luogo in cui venne scolpita: è alta due metri e 41, ha un perimetro di sei metri e 40 e pesa 24 tonnellate. Peso che non potrebbe impensierire né ponti normali né normali pavimenti di musei.

FINE