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Urania - Asimov d'appendice
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LA RELATIVITÀ GENERALE - Isaac Asimov
Titolo originale: The two masses / The victorious general

Parte I

Ho visto Albert Einstein una volta sola.
Era il 10 aprile 1935, e io avevo appena terminato un colloquio al Columbia College, da cui dipendeva la mia ammissione all'Università (Un colloquio disastroso, per un quindicenne schivo e poco comunicativo com'ero io, e non fui ammesso).
Per riavermi dall'emozione, perché non mi facevo illusioni sull'esito dell'incontro, entrai in un museo, ma ero così sconvolto che non sono più riuscito a ricordarne il nome. Mentre vagavo, frastornato, da una sala all'altra, vidi Albert Einstein, ma, nelle condizioni in cui ero, non lo riconobbi subito.
Poi, per mezz'ora, lo seguii pazientemente di stanza in stanza, senza mai togliergli gli occhi di dosso. Non ero il solo, ce n'erano altri come me. Senza dire una parola, senza avvicinarci per chiedergli un autografo, ci limitavamo a guardarlo. Einstein sembrava non accorgersi di niente, probabilmente era abituato.
Dopo tutto, nessuno scienziato, tranne Isaac Newton, aveva mai avuto tanti riconoscimenti - e da parte di grandi studiosi, non solo di profani e ragazzini. Ma le sue scoperte erano di enorme importanza e così rarefatte che sembrava impossibile tradurle in parole semplici, e in particolare la sua teoria più famosa: la Relatività Generale.
Sono solo un biochimico e non un fisico teorico, ma da curioso impenitente di ogni problema scientifico, voglio ugualmente tentare...
Nel 1905 Einstein pubblicò la Teoria della Relatività Speciale (o, più brevemente, Relatività Speciale), la parte più nota del suo lavoro. La Relatività Speciale parte dall'ipotesi che la velocità della luce nel vuoto sia sempre costante, indipendentemente dalla velocità della sorgente luminosa relativa all'osservatore.
Tutta una serie di deduzioni rigorose ci porta a concludere che la velocità della luce rappresenta la velocità limite del nostro Universo; che un oggetto in movimento si contrae nella direzione del moto e diminuisce di velocità, mentre la sua massa aumenta, rispetto ai valori che si otterrebbero se il corpo fosse in riposo: Con la velocità, queste proprietà variano in modo costante. Alla velocità della luce, lo spazio e il tempo si riducono a zero, mentre la massa si avvicina all'infinito. Inoltre, secondo la Relatività Speciale, energia e massa sono reciprocamente collegate dalla famosa equazione E = m*(c^2).
Supponiamo, però, che la velocità nel vuoto non sia costante. Le nostre deduzioni, allora, non saranno più valide. E come la meneremmo con il valore costante della velocità della luce?
Indubbiamente, l'esperimento di Michelson-Morley (1887) ha accertalo che la velocità della luce non varia rispetto al moto terrestre, ma rimane immutata, sia che la luce si muova in dilezione del moto di rivoluzione del pianeta intorno al Sole o che sia perpendicolare ad esso. Questo esperimento è suscettibile di altre interpretazioni (Al limite, potrebbe significare che la Terra, a dispetto di Copernico, non gira attorno al Sole).
Einstein sostenne di non essere a conoscenza dell'esperimento di Michelson-Morley mentre elaborava la Relatività Speciale e di essere dovuto ricorrere all'ipotesi che la velocità della luce fosse sempre costante per superare le contraddizioni in cui rischiava di cadere.
Ora, per dimostrare che l'ipotesi di Einstein è vera, basta verificare se le deduzioni ricavate da quel presupposto sono riscontrabili nell'Universo reale. In questo caso, dovremmo concludere che l'ipotesi è vera, perché non ci sarebbe altro mezzo per spiegare quelle deduzioni (che non si presentano nella concezione newtoniana dell'universo, né in quelle non-einsteiniane o non-relativistiche).
La verifica della Relatività Speciale avrebbe presentato difficoltà insuperabili se le conoscenze scientifiche fossero rimaste com'erano nel 1895, dieci anni prima che Einstein rendesse nota la sua teoria. In effetti, le straordinarie trasformazioni che interessano la lunghezza, la massa e il tempo in relazione alla velocità sono rilevabili solo a velocità altissime, molto superiori a quelle della comune esperienza.
Per un caso fortunato, nel decennio precedente all'annuncio di Einstein, venne scoperto il mondo delle particelle subatomiche, che si muovono a velocità di 15.000 chilometri al secondo e oltre. A queste condizioni, gli effetti della relatività diventano manifesti.
Si constatò allora che le deduzioni della Relatività Speciale erano tutte verificabili non solo qualitativamente, ma anche quantitativamente. Non soltanto la massa dell'elettrone aumentava quando l'accelerazione raggiungeva i nove decimi della velocità della luce, ma si moltiplicava per tre volte e 1/6, come prevedeva Einstein.
Nel corso degli ultimi ottant'anni, la Relatività Speciale ha avuto molte verifiche, e ha sempre superato vittoriosamente la prova. Gli enormi acceleratori di particelle costruiti dopo la seconda guerra mondiale non potrebbero funzionare se non tenessero conto degli effetti della relatività, in base alle equazioni di Einstein. Senza la E = m*(c^2), non si spiegano le reazioni atomiche, il funzionamento delle grandi centrali nucleari e neppure la luce del Sole.
Nessun fisico, a meno che sia folle, può mettere in dubbio la Relatività Speciale. Il che non significa che sia la verità assoluta. Un giorno, forse, un'altra teoria, ancora più vasta, riuscirà a spiegare quanto finora è rimasto in ombra e anche di più, ma per il momento non ci sono elementi per presupporla, tranne forse la separazione dei componenti quasar a velocità superiore a quella della luce, che, del resto, potrebbe essere soltanto un'illusione ottica, spiegabile con la Relatività Speciale.
Ma anche un'eventuale nuova teoria dovrà fare i conti con la Relatività Speciale, esattamente come quest'ultima torna alle leggi newtoniane del movimento, quando si resta nei limiti delle velocità normali.

Ma perché è chiamata Relatività Speciale? Perché si occupa del caso particolare del movimento costante. La Relatività Speciale ci dice tutto su un oggetto che si muova a velocità costante senza mutare direzione rispetto all'osservatore.
Ma che cosa succede se la velocità o la direzione del moto (o entrambi) variano relativamente all'osservatore? In questo caso, la teoria non basta più.
Rigorosamente parlando, un moto non è mai uniforme; ci sono sempre forze che influiscono sulla velocità o sulla direzione, o su ambedue le cose, di un oggetto in movimento. La Relatività Speciale, dunque, sarebbe sempre insufficiente.
Effettivamente le cose stanno così, però a volte la sua insufficienza è talmente insignificante da potersi ignorare. Le particelle elementari che si muovono ad altissime velocità su piccole distanze non hanno il tempo di raggiungere accelerazioni molto forti, e quindi ricadono sotto la Relatività Speciale.
Ma questa rivela i propri limiti soprattutto nell'ambito dell'Universo, alle prese con stelle e pianeti, dove ci troviamo di fronte ad accelerazioni enormi, determinate da campi gravitazionali smisurati e onnipresenti.
A livello atomico, la forza gravitazionale è così debole da essere trascurabile, a differenza di quanto succede nel macrocosmo degli oggetti visibili, dove si può ignorare tutto, tranne la forza di gravità.
In prossimità della superficie terrestre, un corpo che cade accelera, mentre rallenta se il moto è diretto verso l'alto. La Luna ruota attorno alla Terra, la Terra attorno al Sole, il Sole attorno al Centro galattico, la Galassia attorno all'Ammasso Locale e così via. In ogni caso, il movimento di rotazione implica un'accelerazione, dovuta all'incessante variare di direzione del moto. Queste accelerazioni, inoltre, dipendono anche dai campi gravitazionali.
In seguito, Einstein si propose di applicare i principi relativistici al movimento in generale, sia accelerato sia uniforme, ovvero a ogni movimento dell'Universo. Il risultato fu la Teoria Generale della Relatività, o Relatività Generale. Per arrivarci, dovette, in primo luogo, partire dalla forza di gravità.
Questa presentava un dilemma, che risaliva a Newton. Secondo le formulazioni newtoniane delle leggi che regolano il moto degli oggetti, l'intensità del campo gravitazionale dipende dalla massa. La Terra esercita, su un oggetto di due chilogrammi di massa, una forza che è esattamente il doppio di quella con cui attira un corpo con massa di un chilo. Potremo allora calcolare la massa della Terra misurando l'intensità della sua azione gravitazionale su un dato Oggetto, o anche calcolare la massa di un oggetto, misurando la forza che la Terra esercita su di esso.
Una massa così determinata è una «massa gravitazionale».
Newton, nel formulare le leggi del moto, affermò che applicando una forza a un oggetto, gli si imprime un'accelerazione inversamente proporzionale alla massa dell'oggetto. In altre parole, se la stessa forza è applicata a due corpi diversi, uno con massa di due chilogrammi e l'altro di uno, l'accelerazione del primo sarà pari a metà dell'accelerazione del secondo.
La resistenza all'accelerazione è detta «inerzia», e quanto più grande è la massa, tanto maggiore è l'inerzia (e minore l'accelerazione). È dunque possibile calcolare la massa di un corpo misurandone l'inerzia, vale a dire misurandone l'accelerazione prodotta da una forza determinata.
Una massa, così determinata, è una «massa inerziale».
Finora le masse sono state tutte misurate in base agli effetti gravitazionali o a quelli inerziali e i due risultati sono sempre stati ritenuti validi e interscambiabili, pur non essendoci, tra le due masse, una connessione palese. Dopo tutto, potrebbero esistere corpi, fatti di sostanze speciali o tenuti in condizioni particolari, che pur possedendo un campo gravitazionale intenso, hanno un'inerzia debolissima, o viceversa. Perché no?
Comunque, se misuriamo la massa di un corpo, prima in base alla gravitazione e poi all'inerzia, otteniamo gli stessi risultati. Forse però sono soltanto apparenti ed esistono realmente alcune differenze, così piccole da sfuggire all'osservazione.
Nel 1909, un'importante esperimento in questo senso fu compiuta da un fisico ungherese, il barone Roland von Eötvös. Questi sospese a un filo in fibra leggerissima una sbarra orizzontale che reggeva alle estremità due sfere fatte di materiali diversi. Sotto l'azione del sole, i due globi subirono un'accelerazione, ed avendo masse diverse, diciamo una di due chili e l'altra di un chilo, l'inerzia della massa di due chili risultò il doppio dell'altra. L'accelerazione della prima fu allora di appena la metà per chilo e dunque la massa di due chili ebbe un'accelerazione identica a quella di un chilo.
Se la massa inerziale e quella gravitazionale sono esattamente identiche, le due sfere subiscono la stessa accelerazione e la sbarra orizzontale si sposta impercettibilmente verso il Sole, senza girare su se stessa. Ma se le due masse non sono uguali, l'accelerazione di una sfera sarà leggermente superiore a quella dell'altra e perciò la barra ruoterà, determinando la torsione del filo. Quest'ultimo, però è, in una certa misura, resistente alla torsione e girerà solo se sollecitato da una forza determinata; il grado di torsione ci consentirà di calcolare la differenza tra massa inerziale e massa gravitazionale.
Per l'esperimento, si era ricorsi a un filo sottilissimo, che presentava una resistenza minima alla torsione, e tuttavia la barra orizzontale era rimasta immobile. Secondo Eötvös, se la differenza fra le due masse fosse stata di una su 200.000.000, la torsione sarebbe già stata rilevabile. Lo scienziato concluse che, entro questi limiti, le due masse erano assolutamente uguali (Da allora, l'esperimento di Eötvös è stato ripetuto più volte, in versioni estremamente sofisticate e si è raggiunta la certezza, per osservazione diretta, che le due masse sono quantitativamente identiche nell'ambito di 1 su 1.000.000.000.000).
Einstein, nell'elaborare la Relatività Generale, partì dal presupposto che la massa inerziale e quella gravitazionale fossero esattamente uguali perché, in fondo, sono la stessa cosa. Questo «principio dell'equivalenza», come fu chiamato, corrisponde, nella Relatività Generale, alla costanza della velocità della luce nella relatività speciale.
Anche prima di Einstein, comunque, si poteva constatare che l'accelerazione prodotta dall'inerzia può avere gli stessi effetti della gravitazione. Si tratta di un'esperienza comunissima. Per esempio, se ci troviamo su un ascensore che accelera iniziando la discesa, ci sentiamo il pavimento sfuggire sotto i piedi, abbiamo l'impressione di pesare di meno e di essere spinti verso l'alto. L'accelerazione verso il basso equivale a una diminuzione della forza gravitazionale.
Quando poi l'ascensore ha raggiunto una determinata velocità e la mantiene, l'accelerazione cessa e noi ritroviamo il nostro peso consueto. Se la corsa continua alla stessa velocità e nella stessa direzione, l'effetto gravitazionale non si fa più sentire. Infatti, chi viaggia nel vuoto, all'interno di una cabina completamente chiusa, in cui non si avvertono vibrazioni, non riesce assolutamente a distinguere il movimento della cabina da un altro moto uniforme (con velocità o in direzione diverse) né a capire se l'ascensore è fermo o in movimento. Questo è uno dei principi basilari della Relatività Speciale.
Proprio perché la Terra si muove nel vuoto a velocità e in direzione quasi costanti è così difficile rendersi conto se si muove o se sta ferma.
D'altra parte, se l'ascensore continuasse ad accelerare nella sua corsa verso il basso, si avrebbe l'impressione di perdere continuamente peso. Qualora la velocità della cabina fosse così elevata da coincidere con l'accelerazione naturale dovuta alla forza di gravità («caduta libera»), allora ogni sensazione di peso svanirebbe e noi fluttueremmo liberamente nello spazio.
Se poi l'ascensore scendesse a una velocità superiore a quella della caduta libera, avvertiremmo una spinta gravitazionale verso l'alto, e il soffitto finirebbe col prendere il posto del pavimento.
Logicamente, un ascensore non può continuare a scendere all'infinito. In primo luogo avrebbe bisogno di un pozzo lungo alcuni anni luce addirittura, se vogliamo andare fino in fondo all'esperimento. E se anche disponessimo di un condotto di quelle dimensioni, la velocità della cabina, grazie all'accelerazione uniforme, diventerebbe una frazione notevole di quella della luce, e allora interverrebbero, a complicare le cose, importanti effetti relativistici.
Immaginiamo un'altra situazione. Un oggetto in orbita attorno alla Terra è attratto dal nostro pianeta con un'accelerazione determinata dal campo gravitazionale terrestre. L'oggetto, però, si muove anche orizzontalmente rispetto alla superficie del pianeta, e siccome la Terra è sferica, la superficie, incurvandosi, si allontana dall'oggetto. Questo continua a cadere verso la Terra, senza mai raggiungere la superficie del nostro pianeta e continua così, forse per miliardi di anni, in una perenne caduta libera.
Analogamente, una nave spaziale in orbita attorno alla Terra, vi è mantenuta dalla forza gravitazionale, ma a bordo ogni cosa cade con la nave e subisce la gravità zero, esattamente come se fosse un ascensore in caduta continua (In realtà, gli astronauti sono sottoposti alla forza gravitazionale reciproca, a quella dell'astronave, degli altri pianeti e delle stelle lontane, ma si tratta di valori piccolissimi, del tutto trascurabili). Ecco perché i cosmonauti fluttuano liberamente all'interno di una nave spaziale.
La Terra, inoltre, risente l'attrazione gravitazionale del Sole, che la tiene in orbita attorno ad esso, e altrettanto avviene per la Luna. Sia la Terra sia la Luna cadono perennemente verso il Sole, ma, essendo in caduta libera, non avvertono l'azione del Sole nei loro reciproci rapporti.
La Terra, comunque, possiede una sua forza di gravità, che pur essendo molto inferiore a quella del Sole, resta tuttavia considerevole. La Luna, rispondendo alla gravità terrestre, ruota attorno alla Terra, proprio come se il Sole non ci fosse (In realtà, siccome la Luna si trova a una certa distanza dalla Terra ed è, in certi momenti, più vicina di noi al Sole, o più lontana, l'attrazione dell'astro sui due pianeti varia leggermente, determinando certi «effetti di marea» secondari, che rendono palese la realtà dell'esistenza del Sole).
E non basta: stando sulla Terra, noi avvertiamo la gravitazione del nostro pianeta, ma non quella del Sole; perché, insieme con la Terra, siamo in caduta libera rispetto al Sole e inoltre perché l'effetto di marea dell'astro su di noi è talmente trascurabile da passare inosservato.
Supponiamo adesso di essere a bordo di un ascensore che accelera verso l'alto. Questo succede, per circa un minuto, ogni volta che la cabina si mette in moto. In un ascensore ad alta velocità, al momento della partenza, data la forte accelerazione, abbiamo l'impressione che il pavimento salga verso di noi, e ci sentiamo schiacciati al suolo. Dunque l'accelerazione verso l'alto dà la sensazione di un aumento della forza di gravità.
L'impressione, comunque, dura poco, perché l'ascensore, una volta raggiunta la velocità massima, la mantiene fino alla fine della corsa, poi rallenta, e a noi pare che la forza gravitazionale diminuisca. Ma quando la cabina è in piena corsa e non accelera né rallenta, noi ci sentiamo perfettamente normali.
Immaginiamo ora di trovarci all'interno di una cabina senza aperture, che fili verso l'alto, nel vuoto, per un tempo indefinito, a velocità sempre crescente. La forza di gravità aumenterà illimitatamente (Gli astronauti provano questa sensazione sgradevole durante il decollo, quando hanno l'impressione di essere schiacciali. In realtà, l'accelerazione non può superare certi limiti, senza rischiare di essere mortale per i cosmonauti).
Facciamo l'ipotesi che non esista la Terra - ma soltanto un ascensore in corsa verso l'alto. Se l'accelerazione è su valori normali, avvertiremo la forza gravitazionale esattamente come se fossimo sulla Terra, e potremmo muoverci senza difficoltà, quasi che la cabina fosse ferma sulla superficie terrestre.
Ed ecco il grande colpo d'ala di Einstein. Partendo dal presupposto che le masse inerziali e gravitazionali siano identiche, lo scienziato immaginò che non si potesse assolutamente capire se si saliva vertiginosamente, chiusi in un cubicolo senza aperture che filava con accelerazione uniforme di 9,8 metri al secondo, o se invece si era fermi a terra.
Dunque in una cabina lanciata a tutta velocità si avevano le stesse condizioni della superficie terrestre.
Il fatto è facilmente verificabile nel caso della caduta di un grave in condizioni normali. Se siamo a bordo di un ascensore in accelerazione e teniamo in mano un oggetto, poi lo lasciamo andare, questo cade con accelerazione uniforme e il pavimento sembra venirgli incontro a velocità costante.
Lo stesso accade se siamo sulla Terra, ma non perché la Terra vada incontro all'oggetto, ma semplicemente perché non è possibile distinguere l'effetto della forza gravitazionale da quello dell'accelerazione verso l'alto.
Einstein ribadì la validità dell'esperienza per qualsiasi caso. Se un raggio luminoso attraversa orizzontalmente l'ascensore che sta salendo, la cabina, quando il raggio termina la sua corsa, si trova un po' più in alto, e dunque il fascio di luce, nell'attraversare la cabina, sembra incurvarsi leggermene verso il basso. Naturalmente la velocità della luce è tale che la curvatura del raggio, quando passa attraverso la cabina, è quasi impercettibile - però c'è. Su questo non ci sono dubbi.
Allora, proseguiva Einstein, un raggio luminoso sottoposto al campo gravitazionale terrestre (o a qualunque altro) segue un percorso curvilineo, che diventa tanto più evidente quanto più intenso è il campo e più lungo il percorso del raggio. Ecco un esempio di deduzione resa possibile dal Principio dell'Equivalenza e non ricavabile dalle precedenti teorie sulla struttura dell'Universo. L'insieme di queste deduzioni costituisce la Relatività Generale.
Traendo altre conseguenze dalla teoria, diremo che la luce, soggetta all'attrazione gravitazionale, impiega un po' più tempo per andare da A a B, perché segue un tracciato curvilineo; inoltre perde energia quando si propaga in direzione contraria ad un campo gravitazionale, con conseguente spostamento verso il rosso e così via.
Dall'insieme di queste deduzioni, concluderemo che ha senso ritenere che lo spazio-tempo sia curvo e poiché tutto obbedisce a quella curvatura, gli effetti gravitazionali non sono dovuti a un'«attrazione», ma alla geometria dello spazio-tempo.
Per farci un'idea degli effetti gravitazionali, basterà immaginare un enorme foglio di gomma, allargabile all'infinito, teso al di sopra della superficie terrestre. Se una massa preme sulla gomma, in un punto qualsiasi di quel lenzuolo, crea un «pozzo gravitazionale», che sprofonda a perpendicolo tanto più in basso, quanto maggiori sono la massa e la pressione esercitata. Se un oggetto rotola attraverso il foglio, può succedere che sfiori il bordo del pozzo, ci finisca dentro e ne esca, seguendo un percorso curvo, come se fosse soggetto all'azione gravitazionale.
Se il corpo scende più a fondo nel pozzo rimanendovi imprigionato, l'oggetto in movimento sarebbe costretto a seguire una traiettoria elicoidale inclinata tutt'attorno alle pareti della voragine, e se tra le pareti e l'oggetto in movimento si creasse un attrito, l'orbita si deformerebbe e il corpo precipiterebbe sull'oggetto più grosso che si trova in fondo al pozzo.
Grazie alla Relatività Generale Einstein stabilì alcune «equazioni del campo», applicabili all'insieme dell'Universo. Su queste equazioni si basa la scienza della cosmologia.

Einstein rese nota la Relatività Generale nel 1916 e subito l'ambiente scientifico si pose il problema della verifica sperimentale della nuova teoria, com'era avvenuto per la Relatività Speciale.
C'era una difficoltà. Mentre gli effetti previsti dalle due Relatività differivano di poco dalla vecchia fisica newtoniana così da passare inosservati, in compenso la scoperta fortuita dei fenomeni atomici aveva permesso di studiare alcune applicazioni importantissime della Relatività Speciale.
La Relatività Generale fu meno fortunata. Per oltre cinquant'anni dall'annuncio di Einstein, gli studiosi poterono contare solo su effetti di piccolissima entità per stabilire la distinzione tra la Relatività Generale e l'antico ordine newtoniano.
Le osservazioni degli scienziati, dunque, pur essendo tendenzialmente favorevoli alla nuova teoria, non lo erano in modo assoluto e la Relatività Generale fu oggetto di discussione per diversi anni (non però la Relatività Speciale data ormai per certa).
Inoltre, poiché la versione di Einstein non era fondata su basi inoppugnabili, altri studiosi elaborarono nuove formulazioni matematiche alternative, basate sul Principio dell'Equivalenza, e così si ebbero innumerevoli Relatività Generali.
La teoria di Einstein si rivelò la più semplice di tutte e la più facile da tradurre in equazioni matematiche, dunque la più «elegante».
L'eleganza ha sempre esercitato un grande fascino su matematici e scienziati, però non è una garanzia assoluta di verità. Bisognava assolutamente trovare (se possibile) le prove che consentissero di distinguere la Relatività Generale di Einstein, non solo dalla struttura newtoniana dell'Universo, ma anche dalle Relatività Generali rivali.

Parte II

Nella prima parte, ho spiegato come la Relatività Generale si fondi sul presupposto dell'uguaglianza tra massa gravitazionale e inerziale, per cui gli effetti gravitazionali sono identici agli effetti che si possono riscontrare in un sistema in accelerazione infinita.
Ma come dimostrare che questa concezione della gravità è più corretta di quella di Newton?
Ci sono, intanto, le «tre prove classiche», come sono state chiamate.
La prima è nata da un irritante enigma gravitazionale del sistema solare, ancora irrisolto nel 1916 quando Einstein pubblicò la Relatività Generale. Mercurio, ruotando in orbita ellittica intorno al Sole, passa in un punto più vicino all'astro, il «perielio». La posizione del perielio non è sempre uguale rispetto alle altre stelle, ma a ogni rotazione, si sposta leggermente in avanti, a causa, si credeva, degli effetti minori («perturbazioni») delle attrazioni gravitazionali degli altri pianeti. Comunque, si ritiene che anche tenendo conto di tutte queste forze, si ha uno spostamento del perielio pari a 43 secondi di arco per secolo.
Per quanto piccolissimo (soltanto dopo 4337 anni avrebbe raggiunto il diametro della nostra Luna) quello spostamento esisteva ed era sconcertante. Non si era trovata spiegazione migliore che presupporre l'esistenza di un pianeta misterioso all'interno dell'orbita di Mercurio che, con la sua forza di gravità, avrebbe determinato l'avanzamento, altrimenti inspiegabile, del perielio. Il guaio era che non si era riusciti a individuare il fantomatico pianeta.
Secondo Einstein, invece, il campo gravitazionale è una forma di energia che, essendo l'equivalente di una piccola massa provoca un aumento del campo stesso. La gravitazione del Sole, dunque, è leggermente superiore a quella calcolata da Newton ed è questa, e non un altro pianeta, la responsabile del perielio di Mercurio.
Fu una grossa vittoria per la Relatività Generale che però, non durò a lungo. Tutti i calcoli relativi alla posizione del perielio di Mercurio partivano dall'ipotesi che il Sole fosse una sfera perfetta. Presupposto accettabile, visto che il nostro astro è una palla di gas, con un campo gravitazionale fortissimo.
Il Sole, comunque, ruota e perciò dovrebbe avere la forma di uno sferoide schiacciato ai poli. Ma un rigonfiamento equatoriale dell'astro, anche se limitatissimo, potrebbe essere responsabile, in tutto o in parte, dello spostamento del perielio, e questo getterebbe un'ombra di dubbio sulla Relatività Generale.
Nel 1967, il fisico americano Robert Henry Dicke, dopo aver misurato con molta precisione il disco solare, constatò che esisteva effettivamente un lieve rigonfiamento, sufficiente per spiegare l'avanzamento del perielio di 3 secondi d'arco su 43 per secolo. Era forse un primo colpo inferto alla Relatività Generale.
Le successive misurazioni, però, hanno stabilito che lo schiacciamento ai poli del nostro Sole è inferiore ai valori accertati da Dicke, e la questione è ancora in discussione. Ho l'impressione che si finirà per scoprire che la deformazione dell'astro è del tutto irrilevante; per il momento, comunque, lo spostamento dei perielio di Mercurio non è una conferma sufficiente della Relatività Generale.
E le altre due prove classiche?
Una di queste si basa sull'incurvarsi della luce in un campo gravitazionale, cui ho già accennato. Se questo fatto si verificasse nella misura prevista dalla Relatività Generale, la prova sarebbe molto più convincente della faccenda del perielio di Mercurio. Effettivamente, lo spostamento di quest'ultimo era noto, e forse Einstein l'aveva tenuto presente nel formulare le proprie equazioni. La curvatura gravitazionale della luce, invece, non era mai stata verificata, perché non se ne sospettava nemmeno l'esistenza.
Che trionfo per la teoria, se si fosse constatato che un fenomeno tanto improbabile esisteva realmente!
Ma come dimostrarlo? Se nella volta celeste una stella si trova in prossimità del Sole, la sua luce quando, sfiorando l'astro, lo oltrepassa, s'incurva, dando l'impressione che la stella sia leggermente più lontana dal sole di quanto lo sia in realtà. Secondo la Relatività Generale, un corpo celeste, la cui luce passi radente al bordo del disco solare, si trova spostato di 1,75 secondi di arco, cioè di un millesimo dell'effettivo diametro del Sole. Non è molto, però è misurabile - fatta eccezione per quelle stelle che, essendo troppo vicine all'astro, restano normalmente nascoste.
Esse diventano visibili durante un'eclissi totale di Sole, come quella verificatasi il 29 maggio 1919. Nel corso dell'evento, l'astro avrebbe dovuto apparire circondato da un gruppo di stelle sfavillanti. L'astronomo inglese Arthur Stanley Eddington organizzò due spedizioni di astronomi per misurare le posizioni reciproche delle stelle. Quei dati sarebbero poi stati confrontati con le posizioni già note delle stelle quando il Sole si trovava nel punto più lontano.
Le misurazioni furono eseguite e, con crescente emozione degli astronomi, le stelle, una dopo l'altra, rivelarono lo spostamento previsto. La dimostrazione della Relatività Generale fu un evento sensazionale, che occupò con titoli cubitali le prime pagine dei giornali. Einstein, di colpo, divenne lo scienziato più famoso del mondo.
Eppure, anche se l'eclissi del 1919 ha tagliato la testa al toro (secondo la mitologia scientifica popolare) e benché io sia sempre stato convinto che la teoria era corretta, in realtà la Relatività Generale non è stata ancora definitivamente provata.
Le misurazioni astronomiche si sono rivelale necessariamente imprecise, inoltre era difficile paragonare quei dati con le posizioni delle stelle in altri periodi dell'anno. Nuovi dubbi si allacciarono per il fatto che si usavano telescopi diversi, a seconda delle condizioni meteorologiche. In complesso, i dati a sostegno della Relatività Generale erano ancora alquanto insicuri. Certo non servivano a distinguere la particolare teoria einsteiniana dalle altre in concorrenza con la sua.
Come se non bastasse, le misurazioni eseguite in occasioni di altre eclissi, non migliorarono la situazione.
E la terza prova classica?
Ho parlato nella prima parte della luce, che secondo la Relatività Generale, quando si propaga in senso contrario alla forza gravitazionale, perde energia, perché questo si verifica se il fascio luminoso si muove in direzione contraria a un'eventuale accelerazione verso l'alto della sorgente. Perdendo energia, le righe dello spettro che, in assenza di un forte campo gravitazionale hanno una data lunghezza d'onda, si spostano verso il rosso, se il raggio luminoso si propaga in senso contrario alla forza di gravità. Questo è lo «spostamento gravitazionale verso il rosso» o «spostamento di Einstein».
Lo spostamento, però è estremamente piccolo, e per raggiungere valori misurabili richiede un campo gravitazionale di enorme intensità.
Quando fu resa nota la teoria della Relatività Generale, il campo gravitazionale più intenso allora conosciuto era quello del Sole, che però, nonostante la sua potenza, era pur sempre troppo debole per servire come prova.
Comunque, pochi mesi prima della comunicazione di Einstein, l'astronomo americano Walter Sidney Adams aveva dimostrato che il compagno oscuro di Sirio (Sirio B) era in realtà una stella che aveva la massa del Sole ma il volume di un piccolo pianeta. Non era cosa facile da mandar giù e, per un certo periodo, la «nana bianca» fu ignorata dagli scienziati.
Eddington, però, si rese perfettamente conto che se Sirio B era minuscolo, in compenso era estremamente denso e dunque possedeva un campo gravitazionale di enorme intensità. Allora, se la Relatività Generale era corretta, la luce di Sirio B doveva mostrare un evidentissimo spostamento verso il rosso.
Adams continuò le sue osservazioni sullo spettro di Sirio B e nel 1925 annunciò di aver riscontrato lo spostamento verso il rosso con valori molto prossimi a quelli previsti dalla Relatività Generale.
Nuovo trionfo per Einstein, seguito, appena passata la prima euforia, dalla constatazione che i risultati presentavano alcune incertezze. Le misurazioni dello spostamento si erano rivelate poco accurate, per molte ragioni diverse (per esempio, il movimento di Sirio attraverso lo spazio causava uno spostamento delle righe spettrali che non aveva niente a che fare con la Relatività Generale e che introduceva un elemento di incertezza irritante). La prova non serviva a distinguere la Relatività einsteiniana dalle teorie rivali e anche lo studio della luce emanata da altre nane bianche non migliorò la situazione. Fino al 1960, cioè quarantaquattro anni dopo la pubblicazione della Relatività Generale e a cinque anni dalla morte di Einstein, la teoria si basava ancora sulle tre prove classiche, che si erano rivelate inadeguate allo scopo. Per giunta, si aveva l'impressione che non esistessero altre prove valide per stabilire la verità.
Ormai pareva che gli astronomi dovessero rassegnarsi a vivere senza una descrizione adeguata dell'Universo nella sua globalità, proseguendo all'infinito il dibattito sulle possibilità della Relatività Generale, come quei filosofi che discutono sul sesso degli angeli.
La versione di Einstein, comunque, rimaneva pur sempre la più semplice e, matematicamente parlando, la più elegante - il che non significava che fosse anche quella vera.

Poi, dopo il 1960, tutto è cambiato.
Il fisico tedesco Rudolf Ludwig Mössbauer, che si era laureato, a 29 anni, nel 1958, in quell'anno diede comunicazione dell'«effetto Mössbauer», che gli valse, nel 1961, il premio Nobel.
L'effetto Mössbauer riguarda l'emissione di raggi gamma da parte di atomi radioattivi. I raggi gamma sono costituiti da fotoni di energia, la cui emissione provoca un rinculo nell'atomo che li emette, determinando una leggera diminuzione di energia nel fotone del raggio gamma. Di solito, l'energia di rinculo varia da un atomo all'altro, per un sacco di ragioni, con il risultato che quando i fotoni sono emessi in grande quantità da un insieme di atomi, si ha una notevole dispersione di energia.
In determinate condizioni, comunque, gli atomi, incorporati in un cristallo, emettono fotoni a raggi gamma, e il rinculo viene sopportato dal cristallo. Ma data la mole enorme del cristallo rispetto a un atomo, il rinculo assorbito risulta insignificante e quindi tutti i fotoni sono emessi ad alta energia e la perdita di energia del raggio risultante è praticamente zero. Questo è l'effetto Mössbauer.
I fotoni a raggi gamma con un contenuto di energia esattamente identico a quello emesso da un cristallo in quelle condizioni, sono assorbiti avidamente da un altro cristallo dello stesso tipo. Ma se il contenuto di energia varia, anche di pochissimo, in entrambe le direzioni, l'assorbimento da parte del cristallo si riduce drasticamente.
Supponiamo allora che un cristallo che emetta fotoni a raggi gamma si trovi nello scantinato di un edificio, e che il flusso dei fotoni sia diretto verso l'alto, dove sarà captato da un altro cristallo collocato sul tetto, venti metri più su. Secondo la Relatività Generale, i fotoni, andando in senso contrario alla gravità terrestre, dovrebbero perdere energia, ben inteso in quantità piccolissime, ma sufficienti per impedirne l'assorbimento da parte del cristallo sistemato in cima all'edificio.
Il 6 marzo 1960 due americani, Robert Vivian Pound e Glen Rebka Jr., diedero comunicazione di un esperimento, nel corso del quale avevano riscontrato che i fotoni non erano stati assorbiti. Quando poi avevano spostato, molto lentamente, il cristallo ricettore verso il basso, si era verificato un leggero aumento dell'energia d'urto con i fotoni. I due scienziati calcolarono la velocità di spostamento verso il basso necessaria per ottenere un incremento di energia tale da compensare la perdita prevista dalla Relatività Generale e da consentire un forte assorbimento dei fotoni. In tal modo, determinarono con esattezza la quantità d'energia perduta dai raggi gamma, diretti in senso contrario all'attrazione gravitazionale della Terra, e scoprirono che i risultati rientravano, nella misura dell'uno per cento, nelle previsioni di Einstein.
Fu, questa, la prima verifica effettiva e fuori discussione della Relatività Generale, ottenuta integralmente in laboratorio. Fino a quel momento, la misurazione delle tre prove classiche, tutte di tipo astronomico, lasciavano un margine d'insicurezza ineliminabile. In laboratorio, invece, dove tutto è rigorosamente controllabile, si raggiunge una precisione molto maggiore. E poi, cosa sorprendente, l'effetto Mössbauer non aveva bisogno di una nana bianca e neanche di un Sole. Bastava il campo gravitazionale terrestre, relativamente debole, ed era più che sufficiente il dislivello di un edificio di sei piani.
Comunque, benché l'effetto Mössbauer avesse finalmente verificato la Relatività Generale, e la gravità newtoniana fosse ormai definitivamente superata, le altre varietà della teoria (o, più esattamente, quelle comparse dopo il 1960) non erano ancora state tolte di mezzo.
Il 14 settembre 1959, fu captato per la prima volta un eco radar proveniente da un oggetto esterno al sistema Terra-Luna - e precisamente dal pianeta Venere. Gli eco radar sono prodotti da un fascio di microonde (onde radio ad altissima frequenza), che si propagano alla velocità della luce, un valore che ci è noto con notevole precisione. Un fascio di microonde diretto su Venere, dopo averne colpito la superficie, viene riflesso e ritorna sulla Terra nel giro di 2,25-2,50 minuti, a seconda della posizione dei due pianeti. Il tempo impiegato dall'eco per ritornare sulla Terra ci permette di determinare la distanza di Venere in un dato periodo, con precisione molto maggiore di quella ottenuta con altri metodi. Di conseguenza, siamo in grado di calcolare l'orbita di Venere con considerevole esattezza.
Così, la situazione era capovolta. Ormai era possibile prevedere quanto tempo impiega un fascio di microonde per raggiungere Venere e far ritorno sulla Terra, quando il pianeta si trova in un'orbita particolare rispetto al nostro. Si potevano addirittura calcolare, senza troppa imprecisione, certe lievi differenze dai valori previsti.
Venere si trova, ogni 584 giorni, quasi esattamente dal lato opposto del Sole rispetto a noi, e in quest'occasione la sua luce, per raggiungere la Terra, passa radente all'orlo del disco solare.
Secondo la Relatività Generale, quella luce dovrebbe seguire una traiettoria curva e quindi la posizione di Venere risulterebbe spostata, in misura quasi impercettibile, rispetto al Sole. Il pianeta, però, non è osservabile dalla Terra quando si trova così prossimo all'astro e, del resto, è impossibile misurare con precisione quel lievissimo spostamento.
Ma siccome la luce, nel passare radente al Sole, segue un percorso ricurvo, per arrivare fino a noi impiega più tempo che se si propagasse, come di consueto, in linea retta. Noi non siamo in grado di misurare quanto tempo impiega la luce di Venere per raggiungere la Terra, in compenso possiamo inviare un fascio di microonde sul pianeta e aspettarne l'eco.
Nel viaggio di andata e ritorno, il fascio luminoso passa vicino al Sole, e noi, ricevendone l'eco, riusciamo a misurare quanto tempo in più ci ha messo.
Se poi ci è noto a che distanza dal Sole passa il fascio di microonde, potremo anche calcolare con esattezza, grazie alla Relatività Generale, il ritardo del raggio, e i due tempi, quello reale e quello teorico, saranno confrontabili tra loro con molta maggior precisione di quella che si ottiene misurando lo spostamento delle stelle durante un'eclissi totale.
Le nostre sonde interplanetarie emettono impulsi a microonde facilmente localizzabili. Conoscendo la distanza precisa della sonda, possiamo misurare quanto tempo impiegano gli impulsi per arrivare fino a noi, confrontandoli con i valori teorici, quando gli impulsi si propagano a grande distanza dal Sole e quando invece passano radenti all'astro. Tutte queste misurazioni, eseguile dopo il 1968, rientrano nei valori previsti dalla Relatività Generale nella misura dello 0,1 per cento.
Restano ben pochi dubbi, ormai, non soltanto sulla correttezza della Relatività Generale, ma anche sulla superiorità della versione di Einstein. Le teorie concorrenti hanno perso decisamente terreno.

Ci sono anche oggi verifiche astronomiche della Relatività Generale, basate sull'esistenza di oggetti che all'epoca della prima formulazione della teoria erano totalmente sconosciuti.
Nel 1963, l'astronomo olandese-americano Maarten Schmidt riuscì a dimostrare che certe «stelle» particolari, sorgenti radio di eccezionale potenza, non appartenevano alla nostra Galassia, ma erano situate a miliardi di anni luce di distanza, e forse oltre. L'enorme spostamento verso il rosso delle righe del loro spettro dimostrava che quegli oggetti si allontanavano da noi a velocità inaudita. Ciò avveniva (presumibilmente) per l'immane distanza a cui si trovano rispetto alla Terra. Ne nacque una grossa disputa su che cosa fossero i «quasar», che esula dal nostro argomento. Ci interessa invece il fatto che i quasar emettano potenti fasci di radioonde. Grazie ai complessi radiotelescopi costruiti dopo la scoperta dei quasar, si possono localizzare al millimetro le sorgenti radio, meglio di quanto avviene per gli oggetti che emettono solo raggi luminosi.
In certi casi la luce (e le onde radio) di un quasar, mentre si dirigono verso di noi, passano radenti al Sole. Ma a differenza delle onde luminose, che si perdono nello splendore irraggiarne dell'astro, le onde radio sono facilmente captabili, e non c'è bisogno, per farlo, di aspettare che si verifichi un'eclissi. Ormai, il lieve spostamento previsto dalla Relatività Generale può essere calcolalo mollo più accuratamente della famosa deviazione della posizione delle stelle nell'eclissi del 1919.
La variazione delle onde radio di un quasar, ripetutamente misurata negli ultimi quindici anni, è contenuta in meno dell'1 per cento del valore previsto dalla Relatività Generale, e quindi i dati dell'eclissi del 1919, per quanto incerti e confusi, hanno trovato clamorosa conferma.
I quasar intervengono ancora in un altro fenomeno, che rappresenta una verifica, particolarmente interessante, della Relatività Generale.
Immaginiamo un oggetto lontano che emetta luce, e che, tra questo e noi, ci sia un altro piccolo corpo celeste, con un campo gravitazionale fortissimo. Il primo emanerà onde luminose, che oltrepasseranno, sfiorandolo, l'oggetto invisibile più vicino a noi. In virtù della Relatività Generale, i fasci di luce saranno leggermente deviati verso l'esterno, con un effetto analogo a quello di un raggio luminoso che attraversa una normale lente. L'oggetto lontano, dunque, apparirà amplificato e sembrerà più grosso del reale. E questa è una «lente gravitazionale», la cui esistenza era già stata prevista da Einstein.
Il guaio era che nello spazio non esistevano casi del genere. Non c'era, per esempio, una grande stella luminosa che avesse, esattamente tra lei e noi, una nana bianca. E anche se ci fosse stata, come si poteva affermare che la stella era leggermente più dilatata rispetto alle dimensioni che avrebbe dovuto avere se la nana bianca non fosse esistita? Non potevamo certo togliere di mezzo la nana bianca per controllare se la stella rimpiccioliva e tornava alle misure normali.
Torniamo ai nostri quasar. Questi oggetti sono lutti lontanissimi, rispetto alle comuni galassie, e le galassie si contano a miliardi. Esiste dunque la ragionevole possibilità che tra noi e uno dei tanti quasar finora scoperti si trovi una piccola galassia. Inoltre, sia la sorgente radio di un quasar (cioè l'elemento che possiamo osservare meglio), sia la galassia interposta, sono oggetti di forma irregolare, per cui l'effetto sarebbe quello di un raggio luminoso che passa attraverso una lente fortemente incrinata. Anziché avere l'immagine di un quasar in espansione, avremmo forse tante immagini distinte.
Nel 1979 gli astronomi americani, D. Walsh, R. F. Carswell e R. J. Weymann, tennero in osservazione il quasar 0957+561, che presentava due sorgenti radio a distanza di 6 secondi d'arco. Pareva che i quasar fossero due, entrambi luminosi e alla stessa distanza da noi. Come non bastasse, anche i loro spettri apparivano identici. Gli scienziati fecero l'ipotesi che si trattasse di un unico quasar, che sembrava diviso in due per effetto di una lente gravitazionale.
Lo spazio circostante al quasar fu fatto oggetto di attente indagini, per cercare di scoprire se c'era una galassia interposta fra noi e l'oggetto e finalmente, nel 1960, fu individuato uno sciame di galassie deboli a circa un terzo della distanza dei quasar, ed esattamente di fronte ad essi. Le condizioni erano favorevoli per ottenere una lente gravitazionale, e nuovi casi si presentarono in seguito - altro punto a sostegno della Relatività Generale.

Ci resta ora da parlare della dimostrazione più sensazionale e importante della teoria.
Einstein aveva previsto l'esistenza di onde gravitazionali, analoghe a quelle della luce. Una massa che accelera emette onde gravitazionali, esattamente come i campi elettromagnetici che, oscillando, irradiano onde luminose. Ora, un pianeta che ruota attorno al Sole, variando continuamente la direzione del moto, accelera uniformemente. Esso dovrebbe emettere onde gravitazionali, perdendo quindi energia, e avvicinarsi al Sole, nel quale finirebbe per cadere, È ciò che succede, per esempio, alla Terra, ma nel nostro caso la perdita di energia è così insignificante da non essere rilevabile.
Occorrevano allora campi gravitazionali più intensi e accelerazioni fortissime, ma soltanto nel 1974 fu scoperto l'oggetto adatto al caso.
In quell'anno gli astronomi americani Russell A. Hulse e Joseph H. Taylor individuarono il pulsar oggi noto come PSR1913+16, che lanciava impulsi radio a intervalli di 0,05902999527 secondi (circa 17 impulsi al minuto), che variavano leggermente, in più o in meno e con regolarità, con un periodo di 7,752 ore.
L'oggetto, dunque, si avvicinava e si allontanava alternativamente da noi, molto probabilmente perché ruotava attorno a qualcosa. Dalle dimensioni della sua orbita e dal fatto che il corpo attorno a cui ruotava rimaneva invisibile, gli astronomi conclusero di avere sotto mano un pulsar doppio. Non era una novità, ne erano già stati localizzati altri. Ma era del tutto insolito che i due pulsar fossero così vicini. Effettivamente, i due si sfioravano, ruotando a circa 200 miglia al secondo, e se aggiungiamo la piccolezza dell'orbita e l'intensità dei campi gravitazionali, gli effetti della Relatività Generale avrebbero dovuto essere enormi.
Per esempio, il punto di massimo avvicinamento tra i due («periastro») doveva essere spostato in avanti, esattamente come il perielio di Mercurio, ma di oltre un milione e mezzo di volte. Lo spostamento, che è stato regolarmente rilevato, è risultato, di 4,226 ° all'anno.
Fatto ancora più importante, il pulsar binario avrebbe dovuto emettere fasci di onde gravitazionali, in quantità sufficiente a ridurre sensibilmente il periodo di rivoluzione.
Questa riduzione è, probabilmente, di appena dieci milionesimi di secondo per periodo orbitale, ma tali valori si assommano, via via che cresce il numero delle orbite osservate, e ormai sappiamo con certezza che le orbite dei pulsar si contraggono, mentre i due oggetti si avvicinano tra loro finché, tra neppure diecimila anni, si schianteranno uno contro l'altro.
Ed è, questa, un'altra prova importante a favore delle onde gravitazionali previste dalla Relatività Generale.
Ecco, dunque, la storia. Tutte le misure eseguite in questi due terzi di secolo sono state favorevoli ad Einstein e nessuna ha mai gettato un dubbio serio su di lui.
Forse potrei deplorare che Einstein non sia vissuto abbastanza per vedere le vittorie della Relatività dopo il 1960, ma la cosa, in fondo, non è importante. Einstein è sempre stato sovranamente sicuro dell'esattezza della sua teoria. Raccontano che dopo l'eclissi del 1919, a chi gli domandava che cosa avrebbe pensato se le misurazioni dello spostamento delle stelle non avessero confermato le sue deduzioni, Einstein rispondesse che gli sarebbe rincresciuto molto per Dio, che aveva commesso l'errore di fondare l'Universo su principi sbagliati.

FINE