Science Fiction Project
Urania - Racconti d'appendice
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IL MIO AMICO PROGRAMMATORE - Larry Eisenberg
Titolo originale: My random friend

La maggior parte della gente lo considerava un tipo normale, invece io avevo sempre sentito che c'era qualcosa di strano nel comportamento di Gene Berry.
Da ragazzi, nel Bronx, avevamo frequentato la stessa scuola, giocato insieme alla lippa, e persino rubacchiato insieme il gelato a Pasquale Bronzini, l'irascibile gelataio ambulante, che girava con un carro tirato da un cavallo.
Cosa c'era dunque di strano in lui? Non è facile rispondere, perché secondo tutte le apparenze Gene si comportava come ogni altro ragazzo.
Ci sono dei ragazzi che nascono già capi. Prendono le decisioni o costringono gli altri a prenderle. E, di conseguenza, ci sono dei ragazzi che si lasciano guidare dai primi. Gene Berry non era proprio uno che si lasciava guidare - era piuttosto un bastardo annacquato e senza carattere - però era molto intelligente. Troppo. Ne sapeva più di tutti noi. Il suo cervello era un pozzo di nozioni, le più disparate, e le sue capacità di ragionamento erano altrettanto straordinarie. Ma se voi gli aveste chiesto cosa si doveva fare, avrebbe abbassato la testa e si sarebbe seduto in un angolo, senza aprire bocca, finché la decisione sul da farsi non fosse venuta da voi.
Non aveva genitori, per quanto ne so io. Era in affidamento a un vigile del fuoco e alla sua stanchissima moglie che aveva messo già al mondo cinque figli per conto suo. Avevo sempre creduto che la sua vera famiglia fosse quella, quando un giorno afoso di luglio, mentre esausti ci riposavamo sdraiati all'ombra in un cortile dietro le case, Gene mi confidò la verità. Mi disse anche che aveva vissuto presso altre quattro famiglie, cui era stato successivamente affidato, ma che adesso si sentiva sistemato per sempre. Questa rivelazione non mi sembrò gran che eccitante. Avevo sempre pensato, in segreto, di essere anch'io un figlio adottivo.
Comunque, Gene non mi piaceva del tutto. Bighellonavamo insieme, ma per me si trattava più che altro di un rapporto di convenienza, dato che in ogni occasione potevo convincerlo a fare tutto quello che volevo io. Pensate che, quando dopo le medie si trattò di decidere che scuola fare, Gene mi chiese a quale avessi intenzione di iscrivermi.
- Al City College - risposi.
Lui si passò le dita tra i capelli rossicci e stirò le labbra, riflettendo. - Cosa ne diresti se ci venissi anch'io? - mi chiese.
Finimmo insieme i quattro anni di studio, specializzandoci tutti e due in matematica. E ancora Gene mi aveva semplicemente seguito nella mia scelta. E ora la situazione aveva preso una piega poco piacevole, per me. Sebbene fossi un matematico di prim'ordine, non ero all'altezza di Gene. L'originalità e la creatività del suo pensiero, la facilità di ricavare dalle cifre i concetti fondamentali sottintesi e nel rifarne poi la sintesi, erano fantastiche.
Le sue qualità divennero ancora più evidenti quando arrivammo a studiare il calcolo delle probabilità e i sistemi di programmazione. Il concetto di probabilità e la statistica sembrarono eccitare quel ragazzo di scarso spirito, che prese a divorare tutto quello che i nostri testi di scuola contenevano, e a frugare in biblioteca alla ricerca di opere sempre più difficili e astruse. In pochi mesi fu chiaro che Gene aveva approfondito la materia a un punto tale da essere ormai alla pari col nostro professore, che era una delle maggiori autorità in campo matematico.
Gene imparò anche molto in fretta a programmare il computer dell'istituto, e gli algoritmi che compose quell'anno gli fecero ottenere l'agognato primo posto nel corso di matematica superiore. Io ero invidioso della sua bravura e lo fui anche del bellissimo premio che ricevette, un orologio d'oro con catena, cui era appesa una gabbietta contenente un paio di dadi d'avorio.
Dopo di che, a Gene successe qualcosa che non riuscii mai a capire. Di solito passavamo i nostri weekend facendo insieme il giro delle solite sale da ballo noiose e tetre. Io gli raccontavo storie fantastiche delle mie presunti; conquiste femminili, e lui ascoltava le mie parole con intensità quasi dolorosa. Un giorno, per caso, lo sentii che ripeteva nei minimi dettagli, a un nostro compagno di scuola, le storie inventate che gli avevo raccontato io.
E poi un sabato sera comperammo i biglietti per un ballo offerto dal Sociology Club. Appena entrati, individuai due ragazze sedute dall'altra parte della sala sulle poltroncine di vimini allineate contro la parete. Una delle ragazze era davvero carina, mentre l'altra, pur graziosa, era insignificante. Quella carina mi piacque subito, e mi aspettavo che Gene avrebbe tranquillamente accettato la mia scelta, come sempre.
- Prendo io quella carina di sinistra - gli sussurrai.
Ma un attimo dopo, quando raggiungemmo le ragazze, fu Gene per primo a chiedere a quella carina se voleva ballare e a portarsela via in un giro di valzer sul pavimento lucido. In un primo momento rimasi sbalordito, poi m'infuriai. Cercai però di nascondere i miei sentimenti. Feci una corte assidua alla ragazza insignificante e la trattai come se fosse stata una reginetta di bellezza. Ma Gene sembrò non rendersi conto di niente.
Quella sera ognuno dei due tornò a casa per conto proprio, e soltanto il pomeriggio del giorno seguente ci rincontrammo, per avere la nostra prima e unica discussione. Fui io a cominciare, sparando a zero contro di lui e incolpandolo di avermi rubato la ragazza.
- Non era la tua ragazza disse lui, con calma. - La realtà è che tu avevi scelto lei, supponendo automaticamente che a me andava bene l'altra.
- Non mi avevi mai scavalcato - dissi, agitato.
Lui sorrise con aria tranquilla - Lo so - disse. - E forse ti conveniva che le cose andassero così, o no? Le decisioni le prendevi tu, e a me non restava che venirti dietro. Almeno ho fatto così fino a oggi. Ma non ti sei mai reso conto quanto doveva bruciarmi, dentro?
Qualche volta ci avevo pensato anch'io, ma mai a lungo né seriamente. Per di più, non mi piacevano le allusioni al mio egoismo, e così mi infuriai.
- L'unico motivo che avevo di starti insieme - dissi - è che con te è sempre stato facile andare d'accordo.
- Vuoi dire che la nostra amicizia era basata sul fatto che io facessi sempre quello che volevi tu?
- Non travisare le mie parole - ribattei. - Il doppio gioco non mi è mai piaciuto.
Da quel giorno io e Gene ci vedemmo sempre più di rado. Ci si salutava, quando c'incontravamo, e qualche volta ci si parlava per telefono, ma niente di più. E dopo avere finito gli studi lo persi di vista.
Parecchi anni dopo m'imbattei in lui per caso. Era fermo davanti a un bar della Terza Avenue, a Manhattan. Sembrava che non riuscisse a decidersi se entrare o no. Per un attimo mi apparve uguale al Gene dei vecchi tempi. Poi entrò.
Stavo per passare davanti all'ingresso del bar senza fermarmi, ma qualcosa mi si rivoltò dentro, ed entrai dietro di lui. Era al banco e stava bevendo una coca al rum. Trattenni un brivido al solo pensiero del sapore di quel miscuglio, poi mi diressi verso di lui con la mano tesa. Restò colpito nel vedermi, ma ne sembrò sinceramente contento. Dopo aver ordinato un martini, gli raccontai in breve tutto quello che avevo fatto nella vita dopo la laurea.
- Sono ancora nel ramo della matematica - dissi. - Per un po' ho fatto il programmatore, poi ho insegnato in una scuola pubblica, e un paio di anni fa ho passato l'ultimo esame per diventare attuario.
Gene sorrise. - Non mi sarei mai immaginato che ti saresti messo nel ramo assicurazioni.
Abbassai lo sguardo. Neanch'io avevo mai immaginato che avrei finito per lavorarci.
- Sei sposato? - mi chiese.
- Lo sono stato - risposi, e chiamai il barista per farmi riempire ancora il bicchiere.
Gene sembrava a disagio per la mia risposta.
- Mi dispiace - disse.
- Anche a me. Ma adesso che hai sentito il triste resoconto dei miei insuccessi, raccontami di te.
Gene si strinse nelle spalle. - Sono sposato e ho due figli piccoli. E mando avanti la mia azienda.
Non riuscivo a figurarmi Gene che dirigeva qualcosa, ma mi comportai educatamente. - Davvero? - dissi. - Avrei giurato che saresti rimasto anche tu nel campo matematico.
- Ci sono, infatti - disse Gene. - Ho uno studio di consulenza, e ne ricavo anche parecchio.
- Sono contento che almeno uno di noi due ce l'abbia fatta - dissi io, ma avevo paura che l'invidia che provavo trasparisse nelle mie parole.
- Naturalmente il mio lavoro è tutto basato sulla matematica - disse Gene. - Sono nel campo delle predizioni.
Scoppiai in una risata, e Gene fece un sorriso di compatimento.
- Non è quello che credi tu - continuò. - Non uso il cappello a punta del mago, quello con le stelle e le mezzelune d'argento. Non ho neanche una sfera di cristallo. Analizzo tutti i dati relativi a un problema e determino i parametri di ogni probabile processo casuale che vi sia associato. E poi individuo l'alternativa ottimale.
- E così sei un programmatore, c meglio l'uomo delle probabilità favorevoli. Il mercato finanziario rientra nel campo delle tue predizioni?
Gene annuì. - Ho parecchi clienti che operano in borsa - rispose. - E gli ho fatto guadagnare anche un po' di denaro.
- E tu?
- Io non rischio mai - disse lui. - Non in questo modo, almeno.
Mi domandai in che modo rischiasse quell'uomo che non aveva mai osato prendere una decisione di sua iniziativa.
E allora lui mi sorprese. - Se stasera sei libero - disse - vorrei che venissi a casa mia a conoscere la mia famiglia. Marta è una bravissima cuoca. È la ragazza carina con cui ho ballato quella sera.
L'allusione mi punse sul vivo, e nemmeno volevo che Gene facesse sfoggio davanti al mio naso dei suoi successi domestici, ma ero molto curioso.
- Sarò felice di venire - dissi.
Marta era ancora bella, sebbene gli anni le avessero un po' appannato lo splendore della giovinezza. E possedeva un carattere affettuoso ed estroverso, proprio l'opposto di quello di Gene. Sembrò molto contenta che avessi accettato di cenare con loro.
I figli erano due bambine, una di quattro e una di sei anni, e nessuna delle due assomigliava a Gene, tranne che in qualche piccolissimo particolare fisico; la forma delle orecchie, per esempio. Io non sono molto bravo a intrattenere i bambini parlando il loro linguaggio, perciò ringraziai il cielo quando le due piccole vennero condotte nella loro stanza da Gene, subito dopo avere cenato, e senza quasi creare confusione.
Dissi qualcosa a proposito di questo fatto, e Marta sorrise.
- Gene è molto severo e sa farsi obbedire - disse.
Mentre assorbivo quest'ultima novità, Marta mi mise davanti un bicchierino di «crème à la menthe», e intanto che lo centellinavo con il dovuto rispetto, lei mi chiese quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che avevo visto Gene.
- Poco più di dieci anni - risposi.
- Ma è un tempo lunghissimo! - esclamò lei. - Pensate che Gene mi dice sempre che siete stato il suo migliore amico.
Quel commento mi fece sentire a disagio, in particolare quando ripensai alla causa della nostra sola e unica lite.
- Sono sempre stato affezionato a Gene - dissi. - Ma sapete com'è la vita! Il caso, gli impegni, gli altri ci dividono e ci tengono separati. Però sono davvero contento di vedere che tutto gli è andato bene: lavoro e matrimonio.
- Gene è un buon marito - disse Marta. - Ha i suoi problemi, ma mi considero fortunata di averlo sposato.
In quel momento Gene tornò, e il discorso si spostò all'argomento cucina. Io feci alcuni apprezzamenti entusiastici sull'arrosto, che avevo trovato ottimo.
- Come qualunque altra cosa - disse Gene, - l'arte culinaria non può essere lasciata al caso, dato che può essere analizzata e scomposta in una struttura logica.
- Andiamo, Gene - dissi io. - Stai prendendomi in giro? Tutti i grandi cuochi che conosco sono molto bravi e ben preparati, ma nello stesso tempo hanno sempre una certa libertà nel dosaggio degli ingredienti. Sono sicuro che anche Marta non segue un programma automatico.
Marta sorrise. - Invece, in sostanza è proprio così. Gene ha programmato per me ogni piatto del menu.
- Ha programmato il menu?
- In un certo senso. Vedete, Gene ha elaborato il programma per il computer, che poi ha scelto il nostro pranzo di stasera. Abbiamo un terminal installato in cucina.
- Davvero?
Ecco qualcosa a cui non ero preparato.
- Vieni a vedere con i tuoi occhi - disse Gene. - Non c'è niente di strano. Faccio la stessa cosa per i miei clienti. Quindi, perché non dovrei aiutare mia moglie a casa? È stato una specie di regalo per un suo compleanno. Ho passato un paio d'anni a selezionare un migliaio di ricette scelte e a trascrivere per la macchina, in linguaggio matematico, i programmi che dovevano tenere conto anche del periodo dell'anno, della disponibilità e della qualità degli ingredienti, e dei prezzi di mercato. Sta di fatto che ci ho messo dentro tutti i fattori che mi sono venuti in mente.
- Incluse le preferenze dell'ospite - aggiunse Marta. - Non crediate però che io non abbia niente da fare. Devo inserire nel computer le variazioni di prezzo e la mia e altrui valutazione della qualità delle pietanze.
- Ma, in ultima analisi, questo non elimina totalmente la libertà di scelta in cucina? - chiesi.
Gene sembrò contrariato. - Sciocchezze - disse. - La libertà di scelta è un'illusione. Chiunque può mettere insieme senza discernimento un miscuglio di vari elementi presi a caso, e trasformarlo in qualche altro guazzabuglio assurdo. In questo senso, libertà di scelta vorrebbe dire il diritto di fare un lavoro fatto schifosamente male.
- Ma così non diventa una cosa troppo meccanica?
- Forse - disse Gene. - Però generalmente esiste il modo ottimale per svolgere qualunque compito, una volta stabiliti tutti i fatti. Perché allora non avere la libertà di usare questo modo ottimale, anche se comporta l'aiuto di un computer? Questa è la ragione per cui il mio studio ha avuto successo, e questo è il modo in cui abbiamo sempre mandato avanti il nostro ménage.
Mi rivolsi a Marta. - E voi, approvate?
Lei esitò un istante. - Quasi del tutto - rispose.
Una settimana dopo Gene mi offrì un posto nel suo studio di consulenze. Aveva bisogno di un altro matematico che l'aiutasse, mi disse. E soprattutto aveva bisogno di qualcuno di cui potesse fidarsi. Inoltre, mi offrì il cinquanta per cento in più di quello che riuscivo a guadagnare con l'impiego di attuario. Anche così, rimasi un po' in forse se accettare o no la sua offerta.
Quando eravamo bambini ero sempre stato io l'elemento dominante della coppia. Come sarebbe andata con Gene che dirigeva l'orchestra? Ripensai alla sua faccia, com'era adesso. Era ancora quella del ragazzo mite e fondamentalmente buono che era sempre stato. Decisi perciò di rischiare.
Prima che mi fosse assegnato un vero e proprio incarico, dovetti leggermi una monografia scritta dallo stesso Gene: un'analisi accurata di come accostarsi a un impiego o a un lavoro, a qualsiasi tipo di lavoro. Nel testo abbondavano gli esempi pratici, e dopo che lo ebbi letto con attenzione da cima a fondo, Gene mi sottopose a una serie di domande su concetti e problemi matematici di notevole difficoltà. Con suo grande piacere, superai brillantemente quella specie di esame. Solo allora Gene mi affidò il mio primo lavoro effettivo.
Dopo aver letto il prospetto di quello che mi si chiedeva di fare, mi sentii sull'orlo dell'esaurimento nervoso. Dovevo valutare le possibilità di realizzazione pratica di un progetto molto ardito che Gene aveva elaborato, un dispositivo da applicare a un computer che potesse ricavare da un quadro, fosse a olio, ad acquerello o a pastelli, tutte le informazioni e i dati necessari, e lo riproducesse tale quale. La parte più importante del dispositivo era del tutto nuova: una testina a forma un po' strana di uno speciale densitometro altamente sensibile a un'ampia gamma di luce e di colori. Quando questa testina scorreva lentamente sul quadro da esaminare, le informazioni analogiche relative all'intensità della luce, allo spettro dei vari colori, alla struttura dei pigmenti e al tipo di pennellata, venivano trasmesse al computer principale. Allora, il computer assegnava velocemente un numero di codice binario a ogni celletta di reticolo del quadro, e registrava questo numero su un disco magnetico.
Questo processo di raccolta dei dati era solamente la prima di due fasi successive, una più difricile dell'altra. La seconda, senza alcun dubbio la più difficile delle due, era quella della riproduzione del dipinto su una superficie identica all'originale. Nel caso di un quadro a olio i colori dovevano essere depositati lungo ogni coordinata della tela sotto il diretto controllo del computer, che si basava sulle informazioni originali registrate sul disco. Dovevano essere riprodotti persino le ombre scure lasciate dalla polvere, le parti sbiadite dal sole e dagli anni e gli effetti traslucidi della vernice. Non avevo mai lavorato tanto accanitamente in vita mia, ma quando alla fine riuscii a mettere insieme tutte le idee che mi erano venute, prima abbozzai e poi perfezionai quel programma molto complesso che si voleva da me. Dopo di che, passai mesi interi insieme all'uomo che aveva progettato la macchina «pittrice», incitandolo e incalzandolo perché eliminasse ogni più piccolo difetto del suo pennello automatico.
Quando fui del tutto convinto che la macchina avrebbe potuto eseguire qualunque tipo di istruzione le venisse data, andai nell'ufficio di Gene a dirglielo. Lui ascoltò con comprensione sia l'elenco dei risultati che avevo ottenuto sia i numerosi dubbi che ancora mi tormentavano.
- Non preoccuparti - mi disse, in tono consolatorio. - In linea di principio io faccio sempre affidamento sulla validità della nostra analisi matematica. Durante il suo svolgimento, ogni processo, non importa quali siano le sue caratteristiche fortuite, deve adeguarsi a esse. Il punto cruciale, però, è costituito dalla nostra elaborazione dei dati, che deve essere il più possibile esatta. Io ritengo che tu abbia fatto il tipo di lavoro che mi aspettavo da te. Adesso, dimostrami che lo hai fatto davvero.
Uscii dall'ufficio con una grande confusione in testa. Come avrei potuto provare l'esattezza della mia analisi e della mia programmazione, senza riprodurre un quadro? E allora l'evidenza della conclusione logica mi colpì. Era ovvio che Gene si aspettava da me proprio questo.
lo possedevo un vero quadro a olio, molto bello, di un artista americano della fine dell'Ottocento. Era un ritratto raffigurante un maturo bottegaio, dalle tonde guance rubizze, fermo nell'ombra davanti al suo negozio. Il gioco dei chiaroscuri era molto complesso, e la tela era leggermente deformata dal tempo.
Si trattava quindi di una prova difficile, ma onesta.
Con molta attenzione tolsi dalla parete il mio quadro e me lo portai in ufficio. Dopo aver spianato con cura la tela ed essermi assicurato che la testina analizzatrice non toccasse il quadro in nessun punto, diedi il via al processo di raccolta dei dati. Lo ripetei parecchie volte e, con mia grande gioia, ogni volta il raffronto dei dati punto per punto mostrò soltanto qualche variazione insignificante. La riproduzione dei dati, invece, si rivelò piena di pericolosi imprevisti. Per prima cosa a un certo momento il meccanismo dello spruzzatore dei colori fece cilecca, e una grossa goccia di pittura cadde in un punto particolarmente delicato. Poi il computer sbagliò, e saltò un'intera serie di istruzioni. Alla fine, comunque, portammo a termine la riproduzione. Rimasi a fissarla sgomento. Nell'insieme il dipinto era esatto sia nella dinamica delle forme sia nelle variazioni di tonalità dei colori, ma tutto era troppo chiaro di almeno un grado di luminosità.
Riesaminai la testina analizzatrice e scoprii che non era stata applicata esattamente. Mi lasciai cadere su una poltrona, deluso ed esausto, ma dopo un po' mi ripresi d'animo e ricominciammo daccapo.
Al decimo tentativo ottenemmo una riproduzione che mi sembrò ottima in maniera quasi miracolosa. Era persino troppo bella per essere vera.
Telefonai a un esperto d'arte che conoscevo e lo pregai di trovarsi la mattina dopo nell'ufficio di Gene. Non dissi niente a Gene, ma al momento opportuno scoprii i due quadri e chiesi all'esperto di darci un giudizio seduta stante. Gene spalancò gli occhi, ma non disse neanche una parola. Dopo più di mezz'ora, l'esperto indicò quale dei due quadri riteneva fosse l'originale, e con mio grande smacco l'indovinò. Ma si affrettò ad aggiungere che la riproduzione era paurosamente identica all'originale e che, se lui non avesse potuto esaminare e confrontare insieme i due quadri, non avrebbe potuto affermare con sicurezza che la riproduzione non era l'originale.
Allora successe qualcosa di strano. La stanza diventò improvvisamente silenziosa, e l'esperto d'arte si schiarì la gola un paio di volte prima di arrischiarsi a parlare.
- Come voi signori probabilmente saprete - disse. - il mondo è pieno di furfanti, in particolare il mondo dell'arte. Esistono persone, persone molto ricche, che desiderano con tutte le loro forze di possedere i capolavori dei grandi. Così i prezzi delle opere veramente di valore continuano a salire in una spirale sempre più ampia e, cosa che spiace maggiormente, la fonte si sta prosciugando. Ormai, in giro ci sono solamente opere discrete, ma niente di eccezionale.
- Cosa state insinuando? - chiese Gene, con la sua dolce voce bassa di sempre.
L'esperto d'arte rise. - Non sto insinuando niente - rispose. - Mi domandavo solo se non vi fosse venuto in mente che con alcune piccole, molto piccole modifiche alla vostra tecnica e con l'assistenza di un esperto...
- Un esperto... come voi? - chiese Gene.
- Forse. In ogni caso non esiste opera d'arte che non possa venire riprodotta tanto esattamente da renderne virtualmente impossibile la prova di autenticità.
Guardai Gene. Stava giocherellando con la gabbietta d'oro che gli pendeva dalla catena dell'orologio.
- Ogni volta che entriamo o diamo il via a un progetto - disse Gene, - mi piace esaminarlo in precedenza, punto per punto. Se possibile, preferisco prevedere le curve e le deviazioni che potrebbero manifestarsi durante il suo svolgimento. E, cosa abbastanza curiosa, l'idea da voi proposta era una delle prime che avevo previsto. Mi ero detto che un bel giorno qualche imbroglione di bassa lega sarebbe venuto da me a dirmi «il mondo è pieno di furfanti»...
L'esperto d'arte afferrò il cappello. - Non c'è bisogno che continuiate. Vi manderò il conto per le mie prestazioni.
Dopo che se ne fu andato, fissai a lungo Gene. Provavo sentimenti confusi nei suoi confronti. Nel trattare la questione aveva dimostrato un grande coraggio e molta onestà, pensai. Aveva dimostrato anche parecchio intuito nel prevederla. Mi chiesi se, nella stessa situazione, io sarei stato altrettanto onesto. Allora sentii la sua mano toccarmi la spalla. Lo guardai: stava quasi per mettersi a piangere.
- Vedi - mi disse con forza, - quando un lavoro serio e fatto bene si combina con la matematica creativa, «deve» dare i suoi frutti. Sapevo di essere nel giusto quando ti ho preso con me. - Fece una pausa, poi continuò: - E anche per ragioni mie personali sono proprio contento di averti con me.
Negli anni che seguirono tutto mi andò a gonfie vele. L'azienda ricavò un notevole guadagno dal procedimento di riproduzione di quadri e da altri progetti ideati ed elaborati sia da Gene sia da me. Mi trovai persino una seconda moglie. Gene mi aveva preparato un programma di selezione che, mi assicurò, avrebbe scovato per me la moglie perfetta. Ma io sposai la mia segretaria, una ragazza intelligente e affettuosa, con luminosi occhi marrone. La nostra unione andò avanti felicemente, e sospetto che Gene fosse al tempo stesso contento per me e un po' dispiaciuto che avessi scelto in modo tanto poco scientifico la compagna della mia vita.
Per la prima volta in molti anni, cominciavo a sentirmi realizzato e soddisfatto. Persino la seconda grave interruzione dell'energia elettrica era qualcosa che avrei accettato senza scompormi.
Avvenne di pomeriggio, verso le quattro, un giorno di giugno. La temperatura esterna era salita oltre i quaranta gradi, e c'era nell'aria un tasso di umidità che faceva letteralmente soffocare. La richiesta di energia elettrica in tutta la città era enorme. Improvvisamente, mentre stavo chiacchierando con Gene nel suo ufficio, tutte le luci al soffitto si spensero e restammo al buio. Gene impallidì.
- Il computer - disse, boccheggiando, e corse nella stanza accanto. Il computer si era fermato.
- Dovremo aspettare che ritorni la corrente - dissi.
- Sciocchezze - ribatté Gene. - Il minicomputer ha un interruttore automatico che lo passa sulle batterie solari che abbiamo sul tetto.
Andai al quadro dei comandi del minicomputer e con il voltmetro digitale controllai la carica delle batterie. Ne ricavai una lunga fila di zeri.
- Non mi pare che l'interruttore abbia funzionato - dissi.
- Fammi vedere - gridò Gene. Poi si schiacciò nello stretto spazio dietro l'armadio metallico e controllò i fili e le varie parti elettroniche con una pila tascabile. Quando tornò fuori, aveva la faccia in fiamme.
- Cosa faccio, adesso? - chiese sgomento.
- Hai controllato l'interruttore?
- È difettoso - rispose Gene. - E non ne ho di ricambio.
- Allora non possiamo averne un altro finché non torna la corrente - dissi. - Dobbiamo avere solo un po' di pazienza, Gene.
Gene mi fissò. - È quello che penso anch'io - disse.
Tornammo nel suo ufficio non molto seccati per la mancanza di luce artificiale, dato che, tirate su le tende, dalle finestre entrava a fiotti la luce del sole ancora alto. Ma il caldo era infernale. Gene cominciò a star male, e io mi aspettavo da un momento all'altro che svenisse.
- Forse sarebbe meglio che andassimo a casa - dissi. - Ho sentito dalla mia radiolina a transistor che è saltata la rete elettrica di distribuzione di tutti gli stati nordoccidentali. Pensano di non poterla riattivare prima di stanotte, sul tardi.
- Credo che tu abbia ragione - disse Gene.
Fu un colpo, per me. Gene era tornato a essere il Gene che conoscevo da ragazzo. La sua sicurezza, la sua fiducia in sé erano sparite. Adesso stava semplicemente aspettando che io decidessi cosa fare, e poi lui avrebbe supinamente seguito la mia decisione. Una faccenda imbarazzante.
Scendemmo insieme fino al garage sotterraneo, e io salii nella mia macchina. Gene mi gironzolava intorno, osservandomi senza parlare. Lo invitai a salire al mio fianco, e lui obbedì docilmente. Ma all'uscita del garage il guardiano ci avvertì di quello che ci aspettava fuori.
- Il traffico è quasi fermo - disse. - I semafori non funzionano e in giro non c'è neanche un poliziotto. I ponti e le strade principali sono bloccati. Fareste meglio a fermarvi a dormire in città, in albergo.
- Cosa ne dici? - mi chiese Gene.
- Probabilmente ha ragione - risposi. - È una sfortuna non poter telefonare a casa, ma sono sicuro che capiranno.
- Spero di sì - disse Gene, ma senza convinzione.
Mi seguì passo passo mentre andavo da un albergo all'altro, adulando e minacciando come un disperato, finché trovai un portiere che ci diede una stanza. Salimmo a piedi otto piani, su per scale polverose, e ci ritrovammo in una stanzetta squallida a due letti. Una stampa sbiadita di una bianca strada di Utrillo era appesa a una parete. Gene crollò su una sedia vicino all'unica finestra, gli occhi smorti, istupidito.
- Scuotiti, Gene! - dissi. - Non è poi la fine del mondo! Ridaranno la corrente e torneremo al nostro tran tran.
- Lo credi davvero? - chiese lui.
Lo guardai. - Non ti capisco, - dissi. - È una calamità inevitabile. Grave, ma non catastrofica. Ti stai comportando come un bambino di dieci anni.
- Mi sento come se lo fossi - disse Gene. - La rottura dell'interruttore che ha impedito il collegamento con le batterie sul tetto era l'unica cosa che non avevo previsto.
- D'accordo. Così tu hai l'abitudine di analizzare ogni accidente di particolare di qualsiasi cosa, fino a quando non riesci a prevederne tutte le possibili eventualità e a restringere le scelte a una soltanto.
- Ma adesso non ho qui un computer che scelga per me - disse Gene.
- E allora gli affari aspetteranno un giorno o due.
- Non sto parlando del lavoro, sto parlando della mia vita.
Non capivo proprio dove volesse andare a finire. - Cosa ha a che fare la mancanza di corrente con la tua vita? - gli chiesi.
Arrossì. - Tutto - rispose.
- Tu sai che per ogni problema che ci si possa presentare ho inserito le mie analisi nei programmi del computer, o no?
- Sì, lo so. Compresa l'arte culinaria.
- Compresa l'arte culinaria - confermò lui. - Ma ecco, vedi... c'è ben di più dei problemi di lavoro e ben di più delle ricette, là dentro.
Per la prima volta intuii quello che lui voleva dire, e sentii un brivido corrermi lungo la schiena.
Lui mi guardò negli occhi, e il suo sguardo mi disse che sapeva che io avevo capito.
- Hai ragione - aggiunse allora, - non sono mai stato capace di prendere la più piccola decisione. Non ne so il perché. Forse un bravo psichiatra avrebbe potuto risolvere i miei problemi, ma davvero non ce l'ho fatta ad affrontare quella specie di sondaggio dei miei ricordi più brutti. Perciò ho lasciato che fossero sempre i miei genitori adottivi, i miei insegnanti o i miei amici a prendere le decisioni al mio posto. Quando sono diventato indipendente, sono passato attraverso tutte le pene dell'inferno. Ogni decisione che dovevo prendere, anche se poco importante, era una barriera enorme, altissima, da superare, anche se si trattava solamente di scegliere se svoltare a destra o a sinistra per strada. I semafori sono sempre stati una benedizione, perché sceglievano loro per me. Questo è il motivo per cui ti ero sempre incollato addosso. Non tanto perché mi piacesse la tua compagnia, quanto perché tu mi dicevi sempre cosa fare, senza esitazioni.
- Fino a un certo punto - dissi.
- Fino a un certo punto - ammise. - Poi, quando mi sono imbattuto nel calcolo delle probabilità e nella statistica, e ho sviscerato i problemi connessi ai procedimenti casuali e alla programmazione, ho saputo di avere in mano la soluzione. Disponendo di un computer, potevo programmare qualunque eventualità, assegnare funzioni calibrate a ogni probabilità e lasciare che il computer facesse la scelta più opportuna.
- Vuoi dirmi che ogni tua giornata è programmata in anticipo?
- Proprio così.
- Ma è impossibile. Non puoi prevedere «tutto». Cosa facevi quando ti succedeva qualcosa di inaspettato, come un incidente o l'arrivo di un ospite inatteso?
- Usavo questi - rispose, e indicò la gabbietta d'oro appesa alla catena dell'orologio, quella con i due dadi d'avorio. - Lasciavo che i dadi decidessero per me ogni volta che succedeva un imprevisto.
Scossi la testa, incredulo. - In tutta la tua vita non hai mai preso nessuna decisione che fosse proprio di tua iniziativa?
- Erano «tutte» di mia iniziativa - disse lui, rigido. - Dopo tutto, così come tu cerchi i vari elementi per i lavori che fai, io cerco tutti i dati per il mio modo di vivere. Preparo i programmi, inserisco i dati nel computer. E in questo senso tutte le decisioni non sono sempre state fondamentalmente mie?
- Su questo punto non discuto - dissi. - Ma quello che non riesco a capire è il modo in cui riesci a programmare ogni giornata.
- Uso il computer dell'ufficio per stampare un orario-lista particolareggiato della mia giornata. Come sai, ho una memoria eccezionale, e per me è uno scherzo imparare a memoria come saranno le mie prossime ventiquattr'ore.
- Ma se ti ammalassi? Se ti venisse un infarto? Può capitare, sai.
Fece una smorfia. - In questo caso qualcun altro dovrebbe decidere per me.
In quel momento tornò la luce, e si accese la lampada a soffitto.
- Hanno ridato la corrente - dissi. Andai alla finestra e guardai in strada. - I semafori sono già in funzione. Immagino che adesso possiamo andare a casa.
Gene stava giocherellando con i dadi della gabbietta. - Io resto qui - disse.
Mi strinsi nelle spalle e raccolsi la mia borsa. Gene mi guardò, gli occhi supplichevoli che mi imploravano. Mi avvicinai al comodino e ne aprii il cassetto. Li dentro, vicino alla Bibbia, c'era un foglio di carta intestata dell'albergo. In fretta, scrissi in chiaro su un lato del foglio, e poi sull'altro. Lo rilessi e aggiunsi un paio di note a margine. Quando lasciai la stanza, vidi Gene che scorreva ansioso le righe che avevo scritto: era un copione che gli avrebbe permesso di passare la notte e di tornare al lavoro la mattina dopo.
Passarono parecchie ore prima che finalmente arrivassi a casa. Mia moglie tirò un sospiro di sollievo nel rivedermi, e l'amore che i suoi occhi mi dimostravano mi ripagò, più di ogni altra cosa, dell'infernale pomeriggio che avevo passato. Non avevo molta fame, perciò ce ne andammo subito a letto, dove lei mi consolò fino a quando non mi fui completamente rilassato.
La mattina dopo dormii a lungo. Quando mia moglie mi svegliò, le dissi che avevo una giornata di libertà. Era una bugia, ma al momento non sapevo come fare a dire la verità.
Non rividi mai più Gene. Scrissi a macchina le mie dimissioni e gliele spedii per posta. Una settimana dopo ricevetti un assegno per una cifra più che generosa come gratifica. Ma senza alcuna lettera, alcun rimprovero, né richiesta di spiegazioni. Tutti e due sapevamo che non potevo tornare a lavorare con lui. Già una volta ero stato duro e insensibile ai problemi che assillavano Gene. E non avevo intenzione di esserlo una seconda. Non era semplicemente perché adesso sapevo come faceva a passare le sue giornate. Adesso sapevo anche come passava le sue notti, a casa.

FINE