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Urania - Asimov d'appendice
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L'OROLOGIO NEL CIELO - Isaac Asimov
Titolo originale: The clock in the sky

Anni fa, a un party, fui presentato a un tipo piuttosto alto, con i capelli arruffati e una faccia appuntita. Le parole di presentazione furono:
- John Updike... Isaac Asimov.
Pensai furiosamente. Nelle parole di presentazione non c'era nessun cenno che lasciasse capire se si trattava di John Updike lo scrittore. Se era lui, sentivo di dover dire qualcosa di giustamente modesto come si conviene a uno scrittore mediocre che ne saluta uno di prima grandezza.
Se si trattava di un altro John Updike - e, per quel che ne sapevo, poteva essere anche un commerciante di macchine usate - sarebbe stato terribilmente imbarazzante essere sorpreso a prosternarsi.
Updike (perché era proprio lui, lo scrittore) non aveva un problema del genere, naturalmente. Chiunque si chiamasse Isaac Asimov doveva per forza essere lo scrittore...
Così, mentre stavo ancora esitando, lui disse, con un chiaro tono di soggezione nella voce:
- Dite, come fate a scrivere tutti quei libri?
Rimasi con la spiacevole sensazione di avergli lasciato fare sfacciatamente il primo passo e non c'era niente che io potessi fare per cambiare la situazione.
Decisi di dire per «primo» delle parole convenientemente modeste la prossima volta che avessi incontrato un famoso scrittore. Tre giorni dopo, solo tre, vidi, a un altro party, Max Shulman, l'umorista. Non l'avevo mai incontrato prima ma lo riconobbi dalle foto che avevo visto.
Mi affrettai verso di lui e iniziai con accattivante modestia:
- Signor Shulman, permettete che mi presenti? Mi chiamo Isaac Asi...
E lui, con un chiaro tono di soggezione nella voce:
- Dite, come fate a scrivere tutti quei libri?
Rinunciai. Voglio essere modesto ma la gente non me lo permetterà mai. E continua anche a farmi la stessa domanda.

In campo scientifico, la domanda che mi viene rivolta più spesso - continuamente, di persona, al telefono, per lettera - è:
- Come fate a essere «sicuro» che le cose non possono essere più veloci della luce?
Ho risposto a questa domanda più di una volta e non ci tornerò più sopra. Le spiegazioni precedenti non sono mai riuscite a por fine alle domande.
Esaminerò invece un altro aspetto dell'argomento: come fu stabilita all'inizio la velocità della luce? Cosa fece pensare alla gente che la luce avesse una velocità finita in uno spazio infinitesimale?
Se, nell'antichità, la gente aveva in qualche modo un'idea della velocità della luce doveva essere con la convinzione che fosse infinita. Quando la luce appariva, appariva ovunque contemporaneamente. Quando le nubi si aprivano e il Sole rompeva la cortina che nascondeva la sua gloria, non si vedeva la luce farsi strada giù per il viale dell'atmosfera, colpire prima la cima di una montagna e poi rotolare giù per il fianco come un ruscello. Colpiva la valle contemporaneamente alla cima.
Ciò che per primo deve aver scosso il concetto della velocità infinita della luce fu la questione del suono. La luce e il suono erano le due grandi strade che portavano al mondo esterno. L'occhio vedeva e l'orecchio udiva e si supponeva che la luce e il suono facessero onestamente il loro lavoro.
Quando si vedeva qualcosa in distanza, essa si trovava realmente nel posto in cui la si vedeva nel momento stesso in cui la si vedeva. Quando si sentiva un suono in distanza esso era realmente nel posto in cui si udiva, nel momento stesso in cui lo si udiva.
A distanze limitate questo era abbastanza vero per fini pratici, ma quando la distanza aumentava la vista e l'udito erano sempre meno ricettivi. Il suono presentava un ritardo. Se si osservava un uomo tagliare della legna, per esempio, l'immagine e il suono dell'impatto dell'ascia con la legna avrebbero dovuto arrivare contemporaneamente - ed era così se si era vicini. In distanza, invece, il suono giungeva dopo l'immagine e maggiore era la distanza maggiore era il ritardo.
Già da questo era chiaro che anche se la velocità della luce era o non era infinita, la velocità del suono «non» lo era affatto. Per il suono ci voleva un certo tempo per viaggiare; questo era chiaro ai sensi. E se il suono viaggiava a una velocità limitata,, perché non doveva essere lo stesso anche per la luce?
Se la velocità del suono non era infinita, era però molto alta. Nell'intervallo tra l'immagine di un'azione e il suono corrispondente, niente di materiale conosciuto dagli uomini dell'età preindustriale poteva coprirne la distanza. Il suono viaggiava a centinaia di chilometri all'ora.
(Fu solo intorno al 1738 che la velocità del suono fu misurata con accettabile precisione. Degli scienziati francesi posero dei cannoni su due colline distanti 25 chilometri. Fecero fuoco con il cannone posto su una collina e calcolarono l'intervallo tra la fiammata e il suono corrispondente sull'altra collina. Poi spararono con l'altro cannone e calcolarono l'intervallo tra la fiammata e il suono sulla prima collina.
Si calcolò una media dell'intervallo di tempo nei due casi, in modo da eliminare l'effetto del vento, perché si sapeva che il suono era portato dai movimenti delle molecole atmosferiche. Conoscendo la distanza tra i due cannoni e avendo calcolato l'intervallo di tempo, si poteva stabilire la velocità del suono. Ne venne fuori che la velocità del suono nell'aria a 0 ° - la velocità aumenta con la temperatura e varia secondo il mezzo di propagazione - era di 331 metri al secondo).
Dal momento che il suono aveva un ritardo notevole nei confronti della luce, era chiaro che la luce doveva viaggiare a velocità molto superiori a centinaia di chilometri all'ora. Perciò la sua velocità doveva essere molto più difficile da calcolare di quella del suono.
Nonostante ciò, con un coraggio che superava ogni senso del dovere, lo scienziato italiano Galileo tentò di misurare la velocità della luce all'inizio del 1600.
Il metodo che usò fu il seguente:
Galileo si pose su un'altura e un suo assistente su un'altra a un chilometro e mezzo di distanza. Entrambi avevano una lampada schermata. Galileo avrebbe scoperto la sua lampada e l'assistente, non appena vedeva il bagliore della luce, doveva scoprire la sua.
Galileo ragionava così: una volta scoperta la sua lampada, il raggio di luce avrebbe impiegato un certo tempo ad arrivare sull'altra altura. Quando fosse arrivato, l'assistente avrebbe scoperto la sua luce che, a sua volta, avrebbe impiegato un certo tempo a ritornare da Galileo.
L'intervallo di tempo tra il momento in cui Galileo scopriva la sua luce e quello in cui avrebbe visto la luce del suo assistente rappresentava il tempo che la luce impiegava ad andare e tornare da un'altura all'altra. Conoscendo la distanza tra le due alture e misurando l'intervallo di tempo, Galileo si sarebbe trovato appunto nella possibilità di poter calcolare la velocità della luce.
C'era un breve intervallo e per un momento le cose sembrarono promettere bene; ma poi Galileo tentò altre distanze aspettandosi che l'intervallo di tempo aumentasse in proporzione alla distanza. Ma non fu così. Rimaneva sempre lo stesso, per grande o piccola che fosse la distanza tra le lampade. Possiamo essere del tutto certi che se Galileo e il suo assistente fossero stati a tre metri di distanza ci sarebbe stato lo stesso intervallo di tempo tra le due luci di quando si trovavano a un chilometro e mezzo - o a quindicimila chilometri.
Era chiaro che l'intervallo che Galileo stava misurando non rappresentava il tempo che la luce impiegava a viaggiare dal punto A al punto B, ma solo il tempo che il suo assistente impiegava a rendersi conto di aver visto una luce e a far muovere i suoi muscoli per azionare la luce di ritorno. Galileo stava misurando la velocità della reazione umana, non la velocità della luce.
Dal fatto che l'intervallo di tempo non cambiava con la distanza, Galileo dovette concludere che il tempo impiegato dal raggio di luce a viaggiare contribuiva solo in modo impercettibile al risultato.
La velocità della luce non poteva essere misurata in questo modo perché era molto più grande di quella del suono; avrebbe potuto persino essere infinita per quel che Galileo poteva dedurre dai suoi tentativi di calcolo.
Se la luce viaggiava ad alta velocità, anche se a una velocità non infinita, nessuna distanza terrena poteva essere sufficiente a produrre un ritardo percettibile nella sua propagazione. Al contrario, lo potevano le distanze celesti.
Se qualcuno avesse potuto arrampicarsi in cielo, invece di andare su una collina, e accendere e spegnere una stella su comando, l'intervallo tra il comando e il momento in cui si fosse vista la stella accendersi (o spegnersi) avrebbe rappresentato il tempo impiegato dalla luce a compiere il viaggio di andata e ritorno.
Peccato, perché l'idea era stata brillante. Nessuno, al tempo di Galileo, conosceva le distanze dei corpi celesti (tranne quella della Luna). Ma anche se si fossero conosciute le distanze nessuno avrebbe potuto raggiungere i corpi celesti (neppure la Luna). E anche se qualcuno avesse potuto raggiungerli, come si poteva comunicare a distanze così grandi e dare il comando di spegnere una stella? E anche se qualcuno avesse potuto comunicare, come si poteva spegnere una stella?
Fantasie sciocche.
A parte questo, fu esattamente (o quasi) ciò che accadde.
La velocità della luce fu stabilita per la prima volta con un metodo che era assolutamente analogo all'accensione o allo spegnimento di una stella su comando. Cominciò con una scoperta di Galileo. E fu davvero una «lunatica» follia. (E la gente mi chiede perché preferisco scrivere la realtà invece che narrativa! Non riuscirei a combinare un accidente con quei ridicoli voli di fantasia tipici della narrativa).
Primo: la scoperta di Galileo.
Nel 1609 correva voce che qualcuno, nei Paesi Bassi, avesse piazzato delle lenti alle estremità di un tubo cavo e fosse riuscito a far sembrare più vicine le cose lontane.
Galileo non aveva bisogno di altro. In un niente, costruì un arnese simile: un telescopio. Subito lo rivolse verso i cieli. Vide montagne sulla Luna, macchie sul Sole e miriadi di stelle, nelle costellazioni, che prima erano invisibili.
Il 9 gennaio 1610 stava osservando Giove che, attraverso il telescopio, sembrava un piccolo globo più che un semplice punto di luce. Vicino e in linea retta con Giove c'erano tre piccoli oggetti simili a stelle. Il 13 gennaio ne vide un quarto.
Li osservò, notte dopo notte, e fu chiaro che ognuno di essi si muoveva avanti e indietro da un lato all'altro di Giove, mantenendo ognuno una distanza fissa da entrambi i lati. Era impossibile per Galileo non capire quello che stava vedendo.
Giove era circondato da quattro piccoli corpi, ognuno con la sua orbita. E tutte e quattro le orbite erano viste di sbieco dalla Terra.
Immediatamente Galileo annunciò la scoperta e l'astronomo tedesco, suo contemporaneo, Giovanni Keplero, chiamò i piccoli corpi che circondavano Giove «satelliti». La parola derivava dal termine latino «parassiti», cioè coloro che circondavano costantemente qualche uomo ricco e lo adulavano per essere invitati alle sue cene.
I quattro satelliti ebbero nomi di personaggi della mitologia greca che erano strettamente legati a Giove (o Zeus, per essere più precisi). Erano, in ordine di distanza crescente da Giove: Io, Europa, Ganimede e Callisto.
I nomi furono suggeriti da un astronomo tedesco, Simon Marius, che pretendeva di aver visto i satelliti prima di Galileo. La sua rivendicazione non venne riconosciuta ma i nomi furono mantenuti.
La scoperta di Galileo era importante per due ragioni.
Primo, si erano scoperti nuovi membri del sistema solare - membri che erano sconosciuti agli antichi - e una cosa simile non era mai capitata prima. Già questo scuoteva il concetto comune tra l'«intellighentia» del tempo e cioè che i filosofi greci avessero portato lo scibile umano al grado finale. Anche nel 1610 c'era ancora qualcuno tra gli ignoranti colti che si rifiutava di scostarsi dalla vecchia concezione che tutti i corpi celesti, senza eccezione, circondavano la Terra. Qui almeno c'erano quattro corpi che chiaramente e visibilmente circondavano un corpo diverso dalla Terra.
L'unico modo per negarlo era rifiutarsi di guardarli, e fu esattamente ciò che fecero alcuni «cervelli» del tempo. Si rifiutarono di guardare attraverso il telescopio, pensando che, dal momento che Aristotele non parlava di satelliti, essi non esistevano e il fatto di osservarli avrebbe solo confuso la mente.
Al tempo di Galileo non c'erano metodi soddisfacenti per misurare gli intervalli di tempo. Solo nel 1656 lo scienziato olandese Christiaan Huygens inventò un metodo per cui le lancette di un orologio venivano spostate dall'oscillazione regolare di un pendolo.
(Si basava stilla scoperta, fatta mezzo secolo prima, che un pendolo oscillava con ritmo regolare e indipendente, fino a un certo grado, dall'ampiezza dell'oscillazione. La scoperta base fu di voi-sapete-chi. Sempre Galileo, insomma).
L'orologio a pendolo inventato da Huygens era il primo da cui ci si poteva, con ragione, aspettare che spaccasse il minuto per molti giorni di fila.
Ma lo poteva veramente? Come si poteva essere sicuri?
Fino a tempi molto recenti l'umanità doveva dipendere, per la definitiva determinazione del tempo, dai periodici movimenti celesti: la rotazione della Terra intorno al Sole (il giorno), la rivoluzione della Luna intorno alla Terra rispetto al Sole (il mese) e la rivoluzione della Terra intorno al Sole (l'anno).
Il più breve di questi movimenti periodici di cui ci si poteva servire era il giorno, e per qualsiasi intervallo più breve del giorno non c'era niente nel cielo che potesse servire da definitivo termine di paragone e controllo.
Ma se per mezzo del telescopio si fosse trovato un nuovo movimento periodico celeste più breve? Sicuramente i movimenti celesti - non essendo opera dell'uomo - erano perfetti e quindi anche gli orologi migliori costruiti dall'uomo, persino il pendolo di Huygens, potevano essere controllati con profitto a confronto con quelli.
I quattro satelliti di Giove sembravano proprio quello che ci voleva. Io, Europa e Ganimede passavano dietro a Giove a ogni rivoluzione, dal momento che le orbite erano viste quasi di sbieco. Callisto, il più lontano dei quattro, a volte si vedeva spuntare sotto o sopra il globo di Giove mentre gli passava dietro, ma anch'esso, generalmente, era in eclissi.
Normalmente Io era in eclissi ogni giorno e 3/4, Europa ogni 3 giorni e mezzo, Ganimede ogni 7 giorni e 1/7 e Callisto ogni 16 giorni e 2/3. Il momento dell'eclissi poteva essere stabilito con notevole precisione e, poiché i momenti erano separati da intervalli regolari, si potevano ottenere misurazioni di ogni tipo da un periodo di tempo che andava da 3/4 di un giorno fino a pochi minuti.
Usando i migliori orologi a disposizione furono misurati gli intervalli tra le successive eclissi dei diversi satelliti e poi, partendo da quello e prendendo in considerazione ogni tipo di perfezionamento, furono calcolati i tempi delle eclissi future.
Una volta fatto questo, c'erano buone ragioni per pensare che si potesse disporre di un orologio perfetto nel cielo per misurare brevi periodi di tempo.
Qualunque orologio si usasse, questo poteva sempre essere controllato sulla configurazione dei satelliti di Giove ed esser messo un po' avanti o un po' indietro in accordo con ciò che le quattro lancette-satelliti dell'orologio Giove indicavano.
Solo che cominciarono a succedere delle cose strane. L'orologio dell'osservatorio stava avanti, leggermente ma regolarmente, e poi, dopo alcuni mesi, cominciò a stare indietro. Infatti, se era osservato abbastanza a lungo, si vedeva che stava avanti e poi indietro e poi ancora avanti e indietro, con un ritmo lento ma molto regolare. Non importava con quanta attenzione venivano fatte e rifatte le osservazioni del satellite e con quanta meticolosità si calcolavano i momenti delle eclissi future. Gli orologi continuavano in questa lenta ma regolare oscillazione. Inoltre, se si trattava di più orologi, tutti stavano avanti e indietro contemporaneamente, anche se, per qualsiasi altro principio, non si notava affatto.
Nel 1675 - nel frattempo l'astronomo italo-francese, Giovanni Domenico Cassini, aveva osservato i satelliti di Giove con un'accuratezza senza precedenti - si poté concludere dicendo che era l'orologio nel cielo a non essere attendibile. Se si faceva una media degli intervalli tra le eclissi e si usava quella media come ciò «che dovrebbe essere» ne veniva fuori che le eclissi erano talvolta in anticipo di 8 minuti e talvolta in ritardo sempre di 8 minuti.
Passavano dall'anticipo al ritardo e viceversa in modo graduale e periodico e nessuno sapeva perché.
Fu nel 1675 che un astronomo danese, Olaus Roemer, prese in considerazione il problema.
Nel 1619 Keplero aveva elaborato una raffigurazione grafica accurata del sistema solare, con tutte le orbite planetarie al loro posto. Gli astronomi avevano imparato a usare il modello e Roemer, perciò, conosceva bene le posizioni reciproche della Terra e di Giove in ogni momento.
Usò le osservazioni e i calcoli di Cassini e decise di uniformare le eclissi alle posizioni planetarie.
Saltò fuori che le eclissi avvenivano in anticipo quando la Terra e Giove si trovavano tutti e due dalla stessa parte del Sole, e cioè quando erano il più vicini possibile tra loro.
La Terra, essendo più vicina al Sole di Giove, si muove più velocemente nella sua orbita di Giove stesso. Perciò la Terra corre davanti a Giove e, curvando nella sua orbita, se ne allontana. E, mentre la distanza tra Giove e la Terra aumenta, il calcolo del tempo delle eclissi del satellite ritarda sempre di più in modo uniforme.
Quando la Terra e Giove si trovano ai lati direttamente opposti del Sole e quindi sono alla loro massima distanza, le eclissi si verificano più in ritardo. (Naturalmente, quando Giove e la Terra sono ai lati opposti del Sole, Giove gli è troppo vicino, nel cielo terrestre, per poter essere visto. Comunque, i risultati delle osservazioni, quando Giove era visibile, resero Roemer assai sicuro di ciò che accadeva mentre Giove era nascosto, vicino alla fiamma solare).
Poi, mentre la Terra continua la sua corsa e incomincia ad avvicinarsi di nuovo a Giove, il calcolo del tempo delle eclissi comincia a essere anticipato.
Ne deriva che il momento dell'eclissi, quando la Terra è alla massima distanza da Giove, è di 16 minuti in ritardo (il periodo di tempo da 8 minuti di anticipo a 8 minuti di ritardo) rispetto al momento in cui la Terra è alla minima distanza da Giove.
Per Roemer esisteva una possibile soluzione. Supponiamo che la luce viaggi a una velocità grandissima ma non infinita. Quando un satellite sorpassava Giove la sua luce era oscurata, ma un osservatore sulla Terra non vedeva l'oscuramento nel momento stesso in cui avveniva (come accadrebbe se la velocità della luce fosse infinita).
Il raggio di luce continua a viaggiare alla sua velocità finita ed è solo qualche tempo dopo il momento effettivo dell'eclissi che l'oscuramento raggiunge l'osservatore e che la luce del satellite si spegne.
Quando Giove e la Terra sono alla distanza minima, la luce da Giove e i suoi satelliti arriva alla Terra nel suo punto orbitale più vicino a Giove. E quando Giove e la Terra sono alla loro massima distanza, ai lati opposti del Sole, la luce di Giove viaggia verso il punto orbitale della Terra più vicino, e quindi deve compiere, «in più», l'ampiezza completa dell'orbita terrestre per arrivare alla posizione della Terra nel suo punto più lontano.
Se la luce impiega circa 16 minuti ad attraversare l'ampiezza completa dell'orbita terrestre, allora si spiega la dinamica delle eclissi del satellite. Accettato il concetto della velocità finita della luce, tutto quadra; le eclissi si verificano in perfetto orario, senza un attimo di anticipo o di ritardo.
Il problema, a questo punto, è: a che velocità deve viaggiare la luce per compiere l'intera ampiezza dell'orbita terrestre in 16 minuti?
Quando Keplero aveva elaborato il suo modello del sistema solare, non ne conosceva la scala, perché non conosceva nessuna delle distanze interplanetarie. Se ne avesse conosciuta anche solo una, avrebbe potuto calcolare tutte le altre.
Nel 1671, comunque, Cassini era riuscito a stabilire il parallasse di Marte. Da ciò calcolò la distanza di Marte dalla Terra in quel preciso momento. Da questo e dalla posizione reciproca della Terra e di Marte nel modello di Keplero in quel preciso momento, che era pure conosciuto, poté calcolare tutte le altre distanze planetarie.
La misurazione di Cassini del parallasse di Marte era solo leggermente sbagliata (ciò non toglie che fosse un ottimo lavoro per essere la prima volta), e i suoi calcoli mostravano che la distanza media della Terra dal Sole era di 135.000.000 km. L'intera ampiezza dell'orbita terrestre (da un punto su di essa, dalla parte del Sole, a un punto dalla parte opposta) era due volte tanto, cioè 270.000.000 km.
Se la luce riusciva ad attraversare 270.000.000 km in 16 minuti doveva viaggiare a una velocità di poco superiore ai 270.000 km/s. E anche questo calcolo, per essere il primo, era ottimo.
Dal tempo di Cassini abbiamo migliorato le misure della scala del sistema solare. Adesso sappiamo che la Terra dista in media dal Sole poco meno di 150.000.000 km e che la velocità della luce è di 298.000 km/s; ma, considerando il livello della grafica ai tempi di Roemer, possiamo accettare con piena soddisfazione la sua rappresentazione.
Quando pensiamo alla velocità della luce che è circa un milione di volte quella del suono, non ci dobbiamo meravigliare che l'audace tentativo di Galileo sia fallito. Il periodo di tempo conseguente al passaggio della luce su ogni distanza terrestre è così minimo da passare inosservato.
La luce (o qualunque altra cosa che viaggi alla velocità della luce, per esempio le onde radio) impiega meno di 1/60 di secondo da New York a Los Angeles.
Per le distanze ultraterrene, però, il periodo di tempo diventa più sensibile. La luce impiega da 1,28 a 1,35 secondi a raggiungere la Terra dalla Luna (dipende dal punto orbitale in cui la Luna si trova e dalla sua distanza da noi). E, come abbiamo detto, impiega una media di 8,3 minuti per raggiungere la Terra dal Sole e 16,6 minuti per attraversare l'intera ampiezza dell'orbita terrestre.
La velocità della luce, benché sembri enorme a livelli standard, comincia a perdere la sua dimensione di infinito quando si tratti di distanze sempre più grandi.
Impiega, per esempio, più di cinque ore a viaggiare dal Sole a Plutone; più di quattro anni da Alfa Centauri alla Terra; e più di un bilione di anni dalla più vicina quasar alla Terra.
Dal momento che oggi sappiamo che la velocità della luce è una costante fondamentale dell'Universo è umiliante dover constatare che il suo primo annuncio non creò grande sensazione e provocò reazioni contrastanti.
Roemer annunciò il suo calcolo della velocità della luce a un congresso dell'Accademia delle Scienze a Parigi nel 1676. Huygens e Newton ne furono favorevolmente colpiti.
Non così l'autorevole Cassini. Erano state le sue osservazioni e i suoi calcoli quelli che Roemer aveva usato, ma questo non lo impressionò minimamente. Era conservatore in modo quasi patologico e il lavoro di Roemer era troppo rivoluzionario per lui.
Sotto il peso della disapprovazione di Cassini, si permise che il calcolo della velocità della luce fatto da Roemer fosse bandito dalla scienza astronomica per mezzo secolo.
Poi, nel 1728, un astronomo inglese, James Bradley, stabilì la velocità della luce con un altro tipo di osservazione astronomica. Sebbene i due metodi fossero completamente indipendenti, la raffigurazione di Bradley era molto simile a quella di Roemer, e, dopo di ciò, non ci fu più nessuna dimenticanza. Roemer ebbe il suo posto nella storia della scienza e non fu più perso di vista.
Adesso, prima di terminare, lasciatemi chiarire due punti.
1) Il metodo di Roemer fu quasi una ripetizione cosmica dell'esperimento di Galileo e fece esattamente ciò che prima io avevo suggerito, per scherzo, essere impossibile. Una stella, o almeno i punti simili a stelle dei satelliti, venivano spenti e accesi; non certo con mezzi umani, ma per mezzo di Giove e della dinamica della meccanica celeste - e funzionò altrettanto bene. Il concetto «era davvero» fantastico e «lunatico» perché fu la luce lunare (delle lune di Giove) a combinare il trucco.
2) Sebbene la velocità della luce sia quasi un milione di volte superiore a quella del suono, fu proprio la velocità della luce a essere accuratamente stabilita - sessant'anni prima, per l'esattezza.

FINE